AL COMANDO DELL'8° REGGIMENTO ALPINI
POSTA MILITARE 202
OGGETTO: relazione sul siluramento e sull'affondamento del piroscafo "Galilea", avvenuto la notte del 28 marzo 1942 in prossimità delle coste greche.
Secondo superiori disposizioni il battaglione "Gemona", gli ospedali da campo 629, 630, 814, l'8° Sez. Sanità, l'8° Nucleo Sussistenza, l'Ufficio Riservato Ufficiali del Comando 8° Alpini, l'Aiutante Maggiore in I, alcuni ufficiali del Comando e 2 Ufficiali della Divisione, dovevano imbarcarsi la mattina del 27 marzo dal porto di Poseidonia (canale di Corinto) sulla nave "Galilea" che da alcuni giorni era ferma in rada a Lutraki, proveniente dal Pireo.
L'imbarco avvenne regolarmente a mezzo pescherecci e durò dalle ore 7 alle ore 15 circa. Furono pure imbarcati materiali delle varie compagnie del Battaglione e dei reparti minori.
A bordo si trovavano già militari e ufficiali isolati di vari reggimenti che erano stati imbarcati al Pireo e che venivano in Italia per un periodo di licenza. Vi era pure un contingente di detenuti politici greci (64 più 6 donne) e detenuti militari italiani, inviati in Patria a scontare la loro pena. Di scorta ad essi un picchetto di Reali Carabinieri al Comando di un maresciallo.
Contemporaneamente sui piroscafi "Crispi" e "Viminale" procedevano pure le operazioni di imbarco di altri reparti della Divisione.
Mano a mano che i militari salivano a bordo venivano contati per il controllo dei ruolini di imbarco e poi inviati a cura del secondo ufficiale di bordo, nei locali adibiti al soggiorno ed al pernottamento della truppa. A ciascun militare venne distribuito il salvagente ed a ogni gruppo fatte le raccomandazioni da parte del maestro di casa, sull'uso di esso, sulle necessità di tenere le scarpe slacciate, di non avere addosso, in caso di naufragio indumenti che potessero impedire o vincolare i movimenti, sulla necessità di non accendere fiammiferi o sigarette sulle passeggiate esterne o in posti ove potessero essere visti dall'esterno.
Il Capitano D'Alessandro, Comandante del Battaglione, salì a bordo fra gli ultimi. Sua prima cura fu di rendersi conto di persona ove erano alloggiati i suoi uomini e, con un ufficiale per compagnia fece il giro di tutti gli accantonamenti; egli e tutti gli ufficiali che lo seguivano avevano indossato il salvagente.
Gli alloggi per la truppa erano costituiti: dai saloni di I e II classe, dalle passeggiate dei ponti A e B e dai ponti di prua, e di poppa. Nell'interno della nave, sul ponte A le cabine degli ufficiali e su quello B quelle dei sottufficiali. Il salone del ponte B, sottostante il salone da pranzo, era pure adibito ad alloggio truppa.
Dopo colazione il Comandante del Battaglione tenne rapporto a tutti gli ufficiali; stabilì, oltre un turno di servizio generale, composto da un ufficiale di guardia, un sottufficiale, 12 sentinelle, richiesto dal comandante della nave, per la disciplina e l'ordine fra i militari, un servizio di compagnia formato da un ufficiale e un sottufficiale nell'interno di ogni accantonamento, per la durata di 4 ore.
Fissò pure per ogni compagnia il punto di adunata per l'afflusso alle scialuppe di salvataggio in caso di sinistro.
Alle ore 20 suonò la mensa per gli ufficiali. Quasi tutti si presentarono con il salvagente; il maestro di casa rinnovò a tutti le raccomandazioni di stare, per il periodo della navigazione, senza stivali, con le scarpe slacciate e senza indumenti che impedissero i movimenti.
Alle ore 21 le 3 navi, in linea di fila, salparono verso Patrasso. Nessuna luce visibile dall'esterno a bordo.
In navigazione fu notata la reazione contraerea che Patrasso offriva ad un attacco aereo inglese. Al nostro arrivo nel porto si seppe che si era trattato di aerosiluranti, uno dei quali era stato abbattuto.
A Patrasso fu formato il convoglio che alle ore 13 del giorno 28 si mise in movimento direzione Ovest.
Il convoglio era così formato: incrociatore ausiliario, piroscafi "Viminale", "Piemonte", "Ardenza", "Galilea", "Italia", 4 torpediniere di scorta; aerei da ricognizione e da caccia sorvegliavano la rotta.
La navigazione procedè regolarmente, colle torpediniere che pattugliavano il mare e col capo-convoglio che mutava continuamente rotta zigzagando. Gli aerei rimasero sul cielo del convoglio fino all'imbrunire.
All'altezza di Capo Ducati, ore 18,30 circa, una esplosione avvenuta a qualche centinaio di metri dalla nave, provocò un senso di stupore e di confusione a bordo; fu spiegato che le navi di scorta stavano lanciando bombe di profondità: alla prima esplosione seguirono a breve distanza altri scoppi. Siamo nella zona ove di solito sono in agguato i sommergibili.
Il tempo che era stato incerto tutta la giornata, incominciò a peggiorare; raffiche di vento e di pioggia, foschia a tratti più o meno densa. Gli alpini che dormivano sui ponti allo scoperto, dopo il rancio serale, avevano provveduto a stendere i teli per ripararsi dalla pioggia.
Verso le ore 19 dalla formazione in fila le navi passarono a quella di fila doppia ed il "Galilea" venne a trovarsi in prima riga affiancato sulla sinistra al "Viminale". Distanza fra le due navi 600-700 metri.
Dopo lo stato di pericolo il pranzo era stato anticipato alle ore 18,30. Ufficiali di servizio nei vari alloggiamenti continuamente si assicuravano che le truppe rimanessero nei locali ad esse assegnati e che nessuna luce trapelasse all'esterno, che nessun alpino circolasse con sigarette accese sui ponti o passeggiate scoperte.
Gli ufficiali liberi dal servizio si erano trattenuti in sala da pranzo; dato che la zona di maggior pericolo, a detta dei marittimi, si andava allontanando mano a mano che si avvicinava la mezzanotte, parecchi ufficiali si erano ritirati, verso le 22, nelle proprie cabine per riposare.
Fra questi il ten. col. Boccalatte, il magg. Savorè, il cap. D'Alessandro, il cap. Cassinelli, e vari tenenti e sottotenenti.
Un esiguo numero, unitamente al personale di bordo, era rimasto nel salone ad ascoltare la radio che trasmetteva un atto della "Traviata".
Verso le 22,45 un urto, seguito immediatamente da uno scoppio violentissimo, fece tremare la nave, infranse tutti i vetri e le lampadine nel salone da pranzo. Ognuno dei presenti cercò immediatamente di uscire sulle passeggiate, incontrandosi per le scale con altri che affluivano dalle cabine e dal sottostante ponte B.
In breve tempo tutto il personale era all'aperto sulle passeggiate e sui ponti.
Lo scoppio del siluro avvenne nella stanza n. 2, quella immediatamente sottostante il ponte di comando, provocando una falla di metri 6x6 circa. La nave colpita si inclinò subito sulla sinistra di 15 gradi.
Era necessario stare aggrappati a qualche cosa per poter rimanere in piedi.
Vittime eventuali dello scoppio possono essere stati solamente qualche cuciniere e le due sentinelle di guardia della cucina, all'interno, all'esterno alcuni dei ponti inferiori investiti dalla fiammata dello scoppio.
La nave, quantunque sbandata, continuava la sua corsa. Eravamo all'altezza delle isole di Passo ed Antipasso, a sud di Corfù, a circa 5 miglia dalla costa, che però non era visibile data l'oscurità e la foschia.
Onde violente, raffiche di vento; pioggia; a tratti il chiarore lunare, uscendo fra gli squarci delle nubi aumentava la visibilità sul mare circostante.
Un tentativo del Comandante per portare la nave a terra e possibilmente arenarla, fallì, per il mare grosso, per la instabilità della nave (che minacciava di sfasciarsi andando contro vento) e sopra tutto per la rottura dei cavi del timone.
Appena avvenuto il siluramento, come da ordine in caso di sinistro, tutte le navi del convoglio si sono allontanate verso un nuovo punto di adunata; le torpediniere pattugliarono intensamente il mare e gettarono pure alcune bombe di profondità. Una di esse rimase a guardia ed a portare soccorso alla nave colpita.
Lo scoppio del siluro provocò un ondata di panico fra gli alpini; panico aumentato dall'oscurità in cui la nave era piombata. A gruppi sempre più numerosi si precipitarono sul ponte di barche ove erano tutti i mezzi di salvataggio. Parecchi nel timore che la nave, dato lo sbandamento si inabissasse immediatamente, si buttarono in mare. Certamente i primi furono ottimi nuotatori che, fidando dei propri mezzi tentavano portarsi lontano dalla nave per non essere attratti nel vortice del risucchio, ma dietro ad essi e sul loro esempio, si buttarono pure in mare altri che non possedevano doti di nuotatori. Molti di essi lanciatisi dai ponti superiori (altezza dall'acqua m. 8/10) perchè non fecero in tempo ad allontanarsi dalla nave in moto o perchè privi di sensi furono dalle ondate sbattuti contro i fianchi o finirono direttamente sotto le eliche. Nessuno di questi si trova fra i superstiti.
Intanto a bordo gli ufficiali si prodigavano per ristabilire la calma. In tutti i punti ove gruppi di alpini in preda allo spavento imprecavano ed urlavano ivi era un ufficiale che con tutti i mezzi, talvolta pure energici nei confronti di qualcuno che minacciava di uscire di ragione, tentava di farli tacere e di ragionare illustrando loro il modo migliore di salvarsi e di non intralciare la manovra per calare in mare i mezzi di salvataggio.
Il comandante della nave, fallito il tentativo di portarla a terra o di arenarla, sentito dal I Ufficiale di bordo che si era personalmente calato nella stiva colpita, constatando l'entità del danno subito, decideva di fare fermare le macchine, ordine immediatamente eseguito, e di calare in mare le scialuppe affidandone l'incarico allo stesso I Ufficiale.
La manovra fu iniziata sotto vento, dalla parte dove la nave era stata colpita. Dalle scialuppe di sinistra nessuna giunse in mare; alcune si sono sfasciate contro i marosi mentre un'altra precipitava dall'alto carica di truppa forse perchè troppo gremita o per la rottura dei cavi di sostegno.
Dalle scialuppe di destra una giunse finalmente in mare ed il numero di uomini che con essa si salvarono fu di 17. Un'altra giunse capovolta per la rottura di un cavo fu raddrizzata ma pochissimi furono quelli che si salvarono con essa.
Un'imbarcazione più piccola, calata in mare a prua da marittimi e da alpini giunse pure bene in acqua e riuscì a raggiungere poco dopo la torpediniera rimasta a portare soccorso ai naufraghi.
Gli ufficiali rimasti a bordo (alcuni si sono buttati secondo le testimonianze di superstiti fra i primi in mare) regolarono l'afflusso degli uomini nelle scialuppe, coadiuvati da alcuni sottufficiali.
Terminata la calata in mare delle scialuppe con esito purtroppo disastroso a causa del mare, fu provvisto a buttare in acqua zattere e mezzi di salvataggio di circostanza onde quelli che ancora rimanevano sulla nave potessero attaccarsi una volta calati in mare.
Un senso di sconforto si era intanto impadronito degli alpini che avevano assistito alla morte di tanti compagni e malgrado l'insistenza di vari ufficiali e del Comandante della nave, non volevano abbandonare la medesima per calarsi in mare. Fu giocoforza dare l'esempio da parte di vari ufficiali e sottufficiali onde indurre gli uomini ad abbandonare il piroscafo. Alcuni malgrado ogni insistenza rimasero a bordo ed affondarono verso le ore 3,50 del 29 marzo con la nave medesima.
Fra gli uomini calatisi in mare alcuni riuscirono ad avvicinarsi ed attaccarsi a mezzi di salvataggio precedentemente buttati in mare (zatteroni e ciambelle di sughero) ma la massa, essendosi la nave continuamente spostata a causa del vento, rimasero in acqua e col solo ausilio del salvagente.
Le onde si erano fatte più alte e il vento più violento, le raffiche di pioggia più insistenti, la temperatura nelle prime ore del mattino si era pure abbassata. In queste condizioni col corpo immerso completamente in acqua molti finirono per perdere i sensi per esaurimento ed annegare.
La torpediniera rimasta si prodigò alla raccolta di quanti ad essa erano più vicini ma dovette per tutta la notte e le prime ore del mattino stare in guardia in quanto il sommergibile non si era molto allontanato dalla zona e poteva da un momento all'altro tentare di silurare pure essa. Fu costretta perciò a rimanere sempre in movimento spostandosi da una zona all'altra sul luogo del disastro.
La mattina verso le ore 8,30 giunsero altri mezzi di soccorso giunti dalla base navale più vicina, quella di Prevesa: il MAS n. 516 e due dragamine. Apparve pure, poco dopo, un idrovolante della Croce Rossa proveniente da Brindisi.
L'opera di soccorso venne quindi intensificata ma verso le ore 9,45 l'aereo segnalò alla torpediniera una doppia scia e il MAS, individuato il periscopio, buttò in mare 8-10 bombe di profondità. Lievi bolle d'aria e tracce di nafta segnalarono che il sommergibile doveva essere stato danneggiato.
Il salvataggio continuò fin verso le ore 14 per il MAS che con un carico di 47 uomini si avviò alla base di Prevesa.
Sul luogo era pervenuto verso le ore 14 proveniente da Patrasso, l'incrociatore ausiliario "Zara" che non potè raccogliere che un naufrago vivo e numerosi morti.
La torpediniera ed i due dragamine, esaurito il loro compito, la prima con 200 uomini circa ed i secondi con una quarantina di vivi ed una cinquantina di morti si avviarono pure verso la base di Prevesa donde erano partiti.
A Prevesa le prime cure furono apprestate ai naufraghi dall'Ospedale da Campo 183 che provvide al loro ricovero, alla medicazione di vari infortunati ed alla completa vestizione.
Tenente Giovanni Bernardinis