Ipocrisia e retorica sulla strage
Quante sparate sui poveri martiri
Diego Minonzio
Il problema dei servizi giornalistici sulla strage degli italiani in Iraq è che sono (quasi) tutti uguali: iniziano accarezzando le corde del violino, ma poi finiscono con il dare inesorabilmente fiato al trombone. Basta poco per diventare delle macchiette. Basta un attimo per far trascolorare la tragedia nella farsa: un Maurizio Costanzo che - con la consueta classe - fa suonare il “silenzio fuori ordinanza” a effigie del suo raffinatissimo show, un Bruno Vespa che estrapola dal cilindro l'esperto di strategia militare con lavagna e bacchetta, un Magdi Allam che “crepeteggia” sulla sociologia del musulmano sporco e cattivo e magari anche un ministro degli Esteri che invece di stare sulla plancia di comando dà la linea, tutto compreso nel ruolo, tra Laura Freddi e Ramona Badescu. E poi che galleria di mostri, che grandangoli di sottosegretari con il foglietto in mano, che occhi strabuzzati, che parole inutili, finte, irritanti. Il solito giornalismo. La solita Italia. La solita politichetta. La solita televisione dalla lacrima facile e dalla testa vuota alla quale - con l'eccezione dell'insopportabile Giuliano Ferrara, così colto e geniale da sembrare davvero di un altro pianeta - in questi tre giorni non è sembrato vero di confermare tutti i più vieti luoghi comuni sulla sua irrimediabile e desolante “deficienza”.
È come se non esistesse un giusto mezzo, una terza via, come se un approccio all'attualità che riesca a sfuggire al viscido ricatto della melassa o dello sciacallaggio sia, almeno per noi, geneticamente impossibile. Nazione di pezza. Matrigna degenere di eterni bambini che scappano dalle responsabilità e che non possiedono alcuna cognizione del dolore in quanto cardine che in qualsiasi epoca, latitudine e contesto culturale dà senso all'esistenza degli uomini e che proprio per questo motivo andrebbe compreso e “onorato” per quello che è. Levatrice impunita di quell'identità , di quel senso di essere italiani che, nonostante quanto dica e ridica il nostro impagabile presidente della Repubblica, continua e riconfermarsi molto più vicino alla dimensione della macchietta piuttosto che a quella del patriota.
Quanto è durato lo spazio del dolore comunitario e condiviso, quello nel quale le passioni e le ideologie dovrebbero stingersi di fronte all'incombere di una sciagura nella quale nessuno ha il diritto di sentirsi “diverso” da tutti gli altri? Quanti minuti sono passati prima che le agenzie battessero le prime roboanti dichiarazioni sulla “sporca guerra” o quelle imbalsamate sul “sacrificio dei nostri meravigliosi ragazzi”? Pensavamo davvero che il Tg3 e il Tg4, ma anche l'Unità , il Giornale, il Manifesto e chissà chi altro, almeno in questo caso, facessero violenza al proprio dna senza buttarla, come al solito, in politica? Credevamo veramente che le cosiddette trasmissioni popolari non sbracassero nell'ennesima rivisitazione della più frusta “tv del dolore” che baloccheggia con l'occhietto umido sui diciannove nuovi angeli che ora ci proteggono di lassù? Come al solito, non siamo stati all'altezza. Non lo sono stati i nostri politici, mai come oggi metafora di un nanismo culturale figlio di cinquant'anni di politica estera così conigliesca da rimpiangere i tempi d'oro quando nessuno ci sfiorava con un dito perché eravamo lestissimi a calare le brache di fronte a quel terrorista con la kefiah al quale un giorno, chissà perché, hanno pure dato il Nobel per la pace. Non lo è stato il nostro sistema informativo, isterico e provinciale come isterico e provinciale è il paese del quale è fedelissima e grottesca trasposizione. E non lo siamo stati noi. Perché forse, in fondo, è tutta colpa nostra. Quanto è durata la nostra concentrazione sulla dimensione metafisica dello strazio? Quanto siamo stati capaci di capirlo, di "interpretarlo"? Un'ora? Due? Poi è bastata una serata tra i meravigliosi cronistelli del "signora, cos'ha provato quando le hanno detto che suo figlio era morto?" e i politici di terza fascia che loro l'avevano detto che andava a finire così per far prudere, spietato, il dito sul telecomando. Siamo uomini, non dimentichiamocelo. Quanto di più lontano dalla sapienza, dalla misericordia e dallo splendore del creatore, che quello strano giorno ci ha regalato egoismo in abbondanza, il precario dono della ragione e anche le illusioni di tempo e di spazio, ma nessun senso di finalità e di giustizia. Carne, corruzione e indifferenza sono le stesse da sempre e da sempre rappresentano la feccia della creazione e del nostro baluginante stare al mondo. Non è una grande prospettiva, d'accordo. Ma se ce ne ricordassimo almeno in queste terribili occasioni, sarebbe un piccolo segno che stiamo disperatamente cercando di diventare delle persone serie.
Diego Minonzio
d.minonzio@laprovincia.it
http://www.laprovinciadicomo.it
L'ho trovato interessante. Spero che sia lo stesso anche per voi. L'articolo è stato pubblicato, sul quotidiano della città di Como, La Provincia, Sabato 15/XI/2003 in prima pagina.
Saluti