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Battaglione Uork Amba

Originariamente inviato da Federico e preso da :

A L P I N I

edizione dell'Istituto di Divulgazione Storica

sotto gli auspici e l'alto patronato dello

Istituto del Nastro Azzurro fra Combattenti Decorati al V.M.

Roma 1954.

Il testo è del Gen. Antonio Norcen ed è tratto dal capitolo "Gli Alpini in A.O."

Pensavo fosse una cosa interessante per tutti.
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Parte 1

La vigilia del secondo conflitto mondiale non trovò nei territori dell'Impero Grandi Unità  alpine in attesa di battersi per la Patria lungo i confini accidentati e sugli acrocori, sulle ambe che avevano visto all'opera i meravigliosi figli della montagna durante la campagna di conquista.

Numerosi elementi della specialità  si erano succeduti, laggiù, dal 1936 in poi, con mansioni differenti: molti ufficiali, nei reparti e negli stati maggiori, provenivano dai reggimenti alpini della Madrepatria e parecchi di essi, per prestare l'opera loro in colonia, avevano temporaneamente rinunciato al glorioso simbolo delle Fiamme Verdi. L'alpino è attratto, per tradizione, dal servizio negli sconfinati ambienti dove son libere di estrinsecarsi le virtù congenite della loro essenza: coraggio, robustezza, spirito d'iniziativa, valore individuale, attitudine all'azione di piccole unità  in terreni a forte compartimentazione e con carattere d'isolamento. Ciò spiega come ufficiali della specialità  si rivelino, di massima, ottimi comandanti di reparti di colore, di bande indigene, di gruppi scaglionati per lungo tempo in zone d'operazioni difficili ed insidiose; spiega soprattutto perché il "mal d'Africa" abbia tanto sovente posseduto Alpini d'ogni regione e d'ogni grado.

Ma la delicata situazione delle frontiere metropolitane, per la cui difesa le truppe alpine nacquero e con tanto onore han sempre vissuto e vivono, esigeva che rilevanti aliquote di esse non fossero distratte dal loro naturale compito, che ne fa baluardo possente lungo i confini alpestri della penisola. Per questo i forti battaglioni che nel solare periodo dell'occupazione etiopica erano stati protagonisti di imprese leggendarie, furono tra i primi ad essere rimpatriati e di nuovo s'inserirono, con l'usato entusiasmo, fra le unità  consorelle che vigilavano le porte d'Italia. A conquista ultimata, mentre il fervore della sistemazione e della civilizzazione d'Etiopia rivelava nei capi, nei tecnici e nei lavoratori italiani il senso romano dei legionari colonizzatori, la residua attività  militare di rastrellamento, di eliminazione di nuclei ribelli, di pacificazione fra gruppi etnici malati di continue discordie, fu devoluta a reparti di altre specialità , oltreché alle forze di polizia: gli Alpini vi concorsero col battaglione Uork Amba, unico rimasto in Etiopia.

Non appena fu manifesto che la grande ora si avvicinava, sorse spontaneo in diversi capi militari coloniali il pensiero che un forte nerbo di Alpini avrebbe dato certezza di un vantaggioso impiego, specie in alcuni settori dell'ampio scacchiere, e certo più d'un generale desiderò, fra le belle truppe ai suoi ordini, qualche battaglione di Penne Nere.

Ma allo scoppio delle ostilità , l'A.O.I. non aveva, a rappresentare gli Alpini, che il solo battaglione Uork Amba. Un battaglione "speciale", come suol definirsi militarmente ogni reparto che si allontani comunque, nei molteplici aspetti del suo essere, dalla normalità . E l'Uork Amba, sotto questo profilo, poteva considerarsi specialissimo.

Il reclutamento rigidamente regionale, garanzia di omogeneità , è alla base della costituzione della specialità  alpina: l'Uork Amba inquadrava invece nei ranghi gente del'Abruzzo, della Liguria, del Friuli, delle Venezie, del Piemonte, della Lombardia e dell'Emilia. Composto di elementi che avevano prestato servizio negli alpini, noverava tra i suoi uomini i rappresentanti di tutte le categorie di richiamati: dagli anziani della Pusteria che, per primi, avevano ottenuto il congedo subito dopo l'occupazione di Addis Abeba per dedicarsi al lavoro nei campi, ai veterani del 1900 che avevano militato tra le Fiamme Verdi nel 1918, ai giovani provenienti dagli ultimi congedamenti in Patria. Richiamati per mobilitazione o volontari per l'Impero, essi provenivano da tutti i reggimenti alpini, dal 1° all'11°. In questo senso, può dirsi veramente che l'Uork Amba rappresentasse tutti gli Alpini d'Italia.

Dotato di organici ed armamenti simili a quelli di un'altra unità  speciale dislocata in A.O., il battaglione Granatieri di Savoia, esso era dunque un reparto di nuovissima struttura, seppure i vincoli della tradizione e dello spirito dessero tranquillità  di efficienza e certezza di successi operativi.

Poco tempo prima dell'inizio delle ostilità , ne assunse il comando il Ten. Col. Luigi Peluselli.

Fu compito di questo comandante restituire al reparto una fisionomia "alpina" non solo nei tratti spirituali, che le operazioni di polizia del 1938-39, seguite al lungo periodo di guarnigione in Addis Abeba avevano certamente modificato, ma anche nelle linee materiali, troppo forte essendo il divario con le consimili unità  operanti in Patria e dislocate in altri scacchieri. Vi si accinse con lena ed entusiasmo, cominciando col restituire al personale una parte dell'equipaggiamento tradizionale: divisa grigioverde in sostituzione di quella kaki, cappello alpino in luogo del casco, scarponi, sacco da montagna.

Scoccata l'ora dell'azione, in un primo tempo l'Alto Comando assegnò al battaglione una parte della sistemazione difensiva della capitale: lungo un ampio tratto esso concorse alla formazione d'una battuta della larghezza di 100 - 2000 metri, mentre aliquote delle compagnie contribuivano a lavori di varia specie.

Aumentando l'azione di molestia iniziata dalle bande di sciftà , l'Uork Amba fu destinato a presidiare la vastissima zona che dalla periferia di Addis Abeba gravita sull'asse stradale fino al fiume Bottego: sede del comando Uollisò. Al battaglione furono assegnati un reparto coloniale, due gruppi di squadroni "Aquile Nere" e numerose bande armate.

La marcia che in questo periodo compì l'unità  al completo ed in perfetto equipaggiamento fu un brillante collaudo ed una dimostrazione di forza di fronte agli indigeni: con l'ausilio d'una compagnia indigeni, il battaglione effettuò in sei giorni una profonda penetrazione nell'interno del territorio, fino alle vicinanze dell'Omo Bottego, su dorsali boscose ed alture impervie, rastrellando nuclei di ribelli ed imponendosi dovunque per la perfetta efficienza operativa e logistica. Gli Alpini si allenavano nel loro terreno e si preparavano ai futuri cimenti.

Seguì un periodo di rastrellamenti ed alla fine di gennaio 1941, l'ordine improvviso di portarsi sull'Amba Alagi.

Il trasporto fu rapidissimo: il primo febbraio l'Uork Amba raggiungeva il fatidico passo e allorché si accingeva alla sistemazione difensiva della località  agli ordini del Generale Liberati, fu ricaricato in camion per essere autotrasportato verso Asmara. Le vicende della guerra avevano imposto questo repentino mutamento d'impiego, ma la variazione dell'ordine provocò una sensibile dispersione delle compagnie lungo i 1.100 chilometri dalla capitale dell'Impero al capoluogo dell'Eritrea, a causa della scarsa efficienza dei mezzi di trasporto. Il comando del battaglione, giunto ad Asmara, ebbe l'ordine di schierarsi verso Cheren per attaccare alle spalle le forze inglesi, in piena azione contro il dispositivo di difesa italiano.

Il Ten. Col. Peluselli si spinse con una compagnia nella vallata del Bogù, ma fu costretto ad interrompere anche questa fase operativa in seguito all'ordine di portarsi immediatamente a Cheren.

Qui le truppe indiane, ventiquattro ore prima, avevano sferrato un attacco di sorpresa contro Cima Forcuta, elemento chiave per la difesa della piazza, strappando la posizione ai reparti che la presidiavano. Il rilievo, costituito da tre ripidissimi picchi di pretta figura dolomitica ergentisi fra monte Sanchil e monte Amba, doveva essere prontamente rioccupato per evitare la rottura del fronte e la conseguente caduta di Cheren, sentinella avanzata dell'Impero. La gravità  della situazione fu esposta in chiari termini al comandante dell'Uork, e questi assicurò il Generale Carnimeo, comandante della difesa, che i suoi Alpini avrebbero meritato la fiducia per la quale erano stati chiamati a ristabilire l'equilibrio.

Nel frattempo il battaglione, violentemente attaccato dall'aviazione britannica, aveva subito le prime sensibili perdite; inoltre, al fine di raggiungere le basi di partenza per l'attacco, avrebbe dovuto compiere in pieno giorno un movimento di fianco sotto il tiro delle artiglierie che gli inglesi avevano portato in linea sulle alture conquistate. Intuito il pericolo, già  rivelatosi con intenso tiro di batteria contro i camion avanzanti lungo la piana, il Te. Col. Peluselli fece abbandonare gli automezzi e con rapido sbalzo raccolse il battaglione a ridosso del monte Amba. Erano cinquecento Alpini dato che numerosi elementi e tutti i servizi si trovavano in parte scaglionati per avarie dei mezzi di trasporto lungo le strade percorse; in parte, erano stati eliminati dalla sfibrante offensiva aerea.
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Parte 2

Ma il tempo non concedeva soste e neppure ricognizioni o assaggi dell'ostacolo da vincere. Nuovi del tutto alla zona, moltissimi nuovi al fuoco, tutti inesperti della lotta contro truppe agguerrite, largamente dotate di artiglierie, cinquecento alpini si accingevano ad un attacco notturno contro una posizione formidabile, tale da impensierire chiunque ne considerasse anche il suo aspetto alpinistico.

Presi accordi col comandante dell'artiglieria di Cheren, dato uno sguardo - al lume di luna - verso il terreno su cui l'azione doveva essere condotta, alle 23 dell'11 febbraio fu iniziato l'attacco.

Un errore di segnalazione delle linee tenute dalle truppe nazionali ne pregiudicò seriamente la prima fase. Mentre gli Alpini, infatti, procedevano in un tratto che era stato indicato come tenuto da reparti italiani, si trovarono di colpo in presenza del nemico. Il battesimo del fuoco, momento cruciale per ogni compagine pronta alla lotta, sarebbe stato negativamente decisivo, in quelle circostanze, per uomini diversi dagli Alpini. Investiti dal tiro delle armi automatiche, battuti in pieno dallo sbarramento di artiglieria, accesosi con furiosa intensità , decimati in pochi minuti nei plotoni avanzati, gli attaccanti non esitarono. Trascinati dall'esempio del loro comandante il quale, ferito dallo scoppio che l'aveva sbalzato contro una roccia, s'era avventato contro la linea avversaria, essi ebbero uno scatto di volontà . Coprendosi con fitto lancio di bombe a mano si scagliarono sulla prima cima e la superarono di slancio. Intanto la nostra artiglieria, individuati i bersagli e aggiustato il tiro, batteva efficacemente lo schieramento nemico; guidata da continue segnalazioni con razzi, si accingeva ad appoggiare l'ulteriore avanzata dell'Uork Amba. Quattro ore durò il combattimento e nulla poterono 8.000 indiani Sik, guerrieri di ben noto valore, inquadrati da 11 ufficiali inglesi, contro il superbo mordente degli Alpini. Prima dell'alba, Cima Forcuta era restituita alla guardia dei bersaglieri e degli ascari che tenevano il rimanente della posizione.

Ottanta Alpini avevano pagato col loro sangue il prezzo della conquista: perdite non molto elevate, ove si considerino la precarietà  delle condizioni imposte all'attacco dai fattori di ambiente, di ora, di forze; la paurosa difficoltà  della posizione; l'impreparazione del reparto operante, giunto a piè d'opera dopo un estenuante autotrasporto sotto l'infuriare dell'offensiva aerea.

Ingente bottino fu catturato e non tardarono gli ammirati compiacimenti, più di tutti significativo quello di un capitano inglese che, catturato ferito, non voleva ammettere che i vincitori non arrivassero, numericamente, alla forza di due compagnie. Ai "verdi vittoriosi" giunse il caldo elogio dei Generali Carnimeo e Frusci.

Eloquenti le motivazioni di alcune fra le molte decorazioni proposte "sul campo"; quella del Capitano Romeo dice testualmente:
"Comandante la compagnia di testa, con animo indomito, con sprezzo della vita, affrontava centinaia di volte la morte per trascinare la propria compagnia all'attacco di posizione aspra e diruta di forme veramente dolomitiche e a colpi di bombe a mano, di sasso in sasso, di guglia in guglia, dopo quattro ore di combattimento, ne snidava il nemico che si difendeva strenuamente, togliendogli una posizione di importanza strategicamente capitale";

Ma l'evento vittorioso non aveva portato agli Alpini il premio del riposo meritato. Per due giorni, gl'Inglesi, punti sul vivo dallo smacco subìto e fortemente contrariati per aver visto chiudersi la breccia aperta su Cheren, intorno alla quale stavano ammassando imponenti rinforzi per continuare la spinta verso Monte Sanchil ed oltre, scatenarono contrattacchi su contrattacchi. Gli Alpini li respinsero uno ad uno. Nello stesso tempo lavorarono con accanimento per consolidare l'occupazione con opere campali. Inoltre, delineatasi grave la situazione sulla destra dell'Uork Amba, esso dovette sostituire il reparto minacciato, pur continuando a presidiare Cima Forcuta.

Il 24 febbraio gli Alpini furono chiamati a difendere un nuovo settore, quello che partiva da Monte Samanna ed arrivava fino al Beit Gabrù, estendendosi, in linea d'aria, per almeno quattro chilometri. Gli furono assegnati in rinforzo due battaglioni ascari, il V ed il CVI, una batteria ed alcune sezioni bombarde. I reparti ascari erano piuttosto provati, ma una provvidenziale immissione di graduati alpini nei loro ranghi valse a ristabilirne lo spirito combattivo, fiaccato dai lunghi mesi di attesa e dalla lotta difensiva. Con gli scarsi materiali disponibili furono rafforzati i punti più deboli della sistemazione.

Si avvicinava la grande offensiva, intanto, e Cheren ne rappresentava uno degli obiettivi più ambiti, conscio com'era l'avversario che l'eliminazione della piazza avrebbe consentito operazioni a vasto raggio.

All'alba del 15 marzo, dopo giorni e giorni di martellamento aereo, s'iniziò, col tiro d'interdizione delle artiglierie britanniche, l'ultimo atto della tragedia di Cheren. Seguì l'attacco delle fanterie, risoluto, tendente ad un successo di rapida attuazione.

"Aiuto, Alpini" diventò un'invocazione piuttosto frequente. Gli Alpini accorrevano, tamponavano, contrassaltavano; l'Uork Amba si moltiplicava: ricostituì la linea interrotta sulla sinistra di Monte Samanna; riuscì ad eliminare il pericolo d'un crollo generale conseguente alla caduta di Monte Panettone, riconquistato con felice azione notturna.

Si giunse a mezzogiorno del 17; tra incessanti episodi di valore e perdite gravi, gli Alpini erano riusciti a mantenere la spina dorsale delle posizioni loro affidate ed a ristabilire le sorti sui fronti di alcuni reparti indigeni più scossi. Molti ufficiali erano morti o feriti, ma l'impeto nemico, rotto dalla difesa tenacissima, si andava attenuando.

Quasi incredibile l'atto meraviglioso di un giovane ufficiale e di sette alpini, che da soli respinsero un forte reparto inglese a colpi di bombe a mano, sacrificandosi tutti, ma permettendo l'accorrere di rinforzi. Un alpino, gravemente ferito, strappava coi denti la sicurezza delle bombe e le lanciava sui nemici per far pagar loro le mutilazioni patite: i portaferiti dovettero allontanarlo a viva forza.

Quando tutto sembrava calmarsi, arrivarono insieme, al Ten. Col. Peluselli; la notizia che il Col. Lorenzini era morto e l'ordine di ritirare il battaglione dalla linea, ammassarlo ai piedi del monte e presentarsi al Generale Carnimeo per ricevere nuove istruzioni. Un'altra unità  era destinata a prendere il posto dell'Uork.

Un grave compito stava per essere assegnato al battaglione, da due mesi impegnato in duri sacrifici e da sessanta ore esposto a poderoso urto offensivo: la notte precedente il nemico aveva occupato Monte Delodorodoc, altra posta di Cheren. Al rifiuto di almeno un paio d'ora almeno di riposo per la sua truppa stremata, il Ten. Col. Peluselli rispose che l'onore degli Alpini era prima d'ogni altra cosa.

Poche parole, un richiamo alla patria lontana, ai mille e mille uomini della montagna che su fronti diversi lottavano da prodi e, poi, la partenza per la nuova impresa.

Giunto nel settore Prina, cui era assegnata la difesa del Delodorodoc, fu eseguita una sommaria ricognizione del punto da attaccare, furono concentrati appoggi ed interventi dai settori limitrofi, in particolare da quello del Monte Falestoc, tenuto dagli ascari sulla sinistra e dalla P.A.I. sulla destra.

Alle 23.45 le compagnie mossero dalle basi di partenza e scattarono verso l'obiettivo con impeto travolgente. Già  il nemico, vacillando sotto le baionette dei veterani, aveva accennato in modo netto di non reggere la spinta e si predisponeva alla manovra di ripiegamento sull'intero tratto investito, allorché avvenne l'imprevisto. Gli ascari, pronti a dar man forte sulla sinistra, non interpretarono nel giusto senso i razzi da segnalazione dell'Uork, forse perché ingannati da artifici analoghi che si levavano dalle linee inglesi e non si mossero, mentre le armi del settore di destra, mitragliatrici e fucili mitragliatori, cui si aggiunsero purtroppo le salve delle batterie italiane di appoggio, iniziarono un tiro cortissimo rovesciando valanghe di proiettili sui plotoni ormai in piena azione, anziché sulle ridotte dei difensori. Questi, ben felici dell'involontario aiuto che ricevevano e del tutto indisturbati sulla loro destra a causa dell'immobilità  degli ascari, si gettarono sul fianco degli Alpini, in armonia perfetta con un micidiale concentramento delle loro artiglierie, dotate di straordinaria precisione e celerità  di tiro.

In meno d'un'ora, la situazione, apertasi con tanti favorevoli auspici per le nostre armi, si capovolse radicalmente: fulminati da raffiche e da granate che piovevano su di loro da tre direzioni, impossibilitati a fare affluire i gruppi di rincalzo, gli Alpini lasciarono sul terreno dello scontro il 60% dei già  esigui effettivi. Mancando di collegamenti radiotelefonici, privi di qualunque mezzo atto ad impedire la persistenza nei fatali errori da parte amica, il comando di battaglione e quelli delle compagnie non poterono neppure render noto al comando superiore la tragica realtà . Non restò che ripiegare dalla linea raggiunta ed imbastire un fronte rudimentale tra Monte Sanchil ed il Falestoc coi rimasugli delle compagnie avanzate, a prevenire le irreparabili conseguenze d'un inseguimento, che per vera fortuna non avvenne.

Il giorno seguente, alle 17, l'Uork, in condizioni di stanchezza proibitive, compì un secondo tentativo di riprendere la cima contesa, ma senza risultato. Lo sforzo si ripeté all'imbrunire, con quel rinnovato vigore che caratterizza l'incredibile reviviscenza ed ostinazione degli Alpini. Ferito il comandante del battaglione, morti o feriti quasi tutti gli ufficiali ed i sottufficiali, il bel reparto si dissanguò davanti alla difesa, rivelatasi ormai perfettamente a punto e sensibilissima in ciascun elemento. Il successo, sul quale riposavano le estreme speranze della piazza di Cheren, si sottraeva alle unghie di coloro che in circostanze ben più audaci avevano saputo ghermirlo.

All'una del 19, in seguito alla disperata richiesta del comando piazza, un quarto assurdo tentativo vide gettarsi allo sbaraglio i pochi superstiti, trascinati dall'eroismo di un Capitano e di un Tenente, unici ufficiali rimasti incolumi. Quel che tornò da quest'ultima carica non era che l'ombra di un battaglione alpino. Eppure, questi redivivi rimasero a contrastare il passo alle unità  inglesi fino al mattino del 27, sfuggendo poi alla cattura con una marcia di tre giorni e tre notti fra i monti. Quando poterono contarsi, si accorsero d'essere rimasti in poco più d'un centinaio, compresi i conducenti e quanti non erano direttamente intervenuti nell'azione perché incaricati di servizi diversi. Un solo ufficiale era con loro.

Mentre il Ten. Col. Peluselli, strappato a forza dal fronte per essere ricoverato in ospedale, si avviava verso un movimentato susseguirsi di vicende, nelle quali si rivelò ancora la fierezza del suo carattere, i laceri avanzi dell'Uork Amba, rinforzati da 90 uomini giunti da Addis Abeba e posti al comando di quattro ufficiali, intempestivamente usciti dagli ospedali, furono inviati alla difesa di Massaua: qui essi dettero ancora generoso sangue combattendo fino alla fine con l'usato valore.

Così si chiude l'epopea dell'Uork Amba. Nel declino triste dell'Impero, già  consacrato alla Patria da tanto sacrificio e lavoro di Italiani, le sue gesta testimoniano d'uno spirito che non morrà  mai nei soldati della montagna, capaci d'andare, oltre ogni umano limite, ai vertici del sacrificio consapevole. Mancò il peana della vittoria che s'era librato sui battaglioni della Pusteria cinque anni prima, in quelle terre stesse; avevano fatto difetto tutti gli elementi basilari che sono, per la struttura tattica e logistica degli Alpini, altrettanti canoni religiosi. Ma non era stato davvero assente dai ranghi del reparto lo slancio meraviglioso, né furono inferiori alla tradizione, la resistenza morale e fisica, la tenacia indomabile, il senso puro del dovere.

Dopo aver rinverdito la memoria dei mirabili fatti d'arme di Cima Forcuta e del Delodorodoc, nulla può valere più di tre cifre nell'esaltazione degli uomini che ne furono gli attori: 916 alpini contò l'Uork Amba, anche se mai materialmente riuniti, neppure in episodi logistici della sua tormentata esistenza fra i turbini della guerra. Di essi, 323 furono i morti, 460 i feriti.

Al Battaglione Uork Amba è stata concessa la Medaglia d'Argento al Valor Militare (9 febbraio - 27 marzo 1941).

La storia del Battaglione Uork Amba non può essere contenuta in poche pagine. Lo spazio ci ha imposto una limitazione grave costringendoci a condensare avvenimenti che ben altro rilievo avrebbero meritato. Prima di chiudere questo capitolo, non possiamo esimerci tuttavia dal rievocare la leggendaria figura di un Eroe, il Sottotenente Medaglia d'Oro (alla memoria) Castellani Bortolo, da Belluno, nel quale l'Uork Amba trova il simbolo più alto e più aderente alla verità  storica delle sue vicende.

Richiamato alle armi mentre si trovava ad Addis Abeba, dove lasciò moglie e due figli in tenera età , e assegnato al battaglione Uork Amba l'8 novembre 1940, il Castellani scriveva, tra l'altro, ai genitori:

"… (omissis: seguono parte dei testi di lettere scritte dal Castellani ai genitori, al fratello e ad un amico n.d. Federico)…

La motivazione della sua Medaglia d'Oro ricorda le circostanze in cui cadde:

"Alla testa del suo plotone, a cui aveva saputo infondere l'altissimo spirito del quale si sentiva animato, in ardito attacco di posizione montana, ricacciava il nemico con numerosi personali assalti a bombe a mano, cooperando decisamente alla riconquista della posizione ed alla cattura di prigionieri. Benché ferito e febbricitante, non abbandonava il reparto concorrendo, con indomito valore, a stroncare i furiosi contrattacchi nemici. Rinunciato ad altro comando che lo avrebbe allontanato dalla linea di combattimento e benché febbricitante, partecipava ad una sanguinosa azione che durava da varie ore, prendendo il posto di vari ufficiali feriti. Volontariamente si offriva poi per riconquistare un posto avanzato, caduto in mano del nemico, e mentre trascinava i suoi uomini con superbo coraggio, cadeva colpito a morte. Magnifica figura di eroico combattente. Cheren (A.O.I.) 11 febbraio - 16 marzo 1941."
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Aggiungo la motivazione di una medaglia d'oro.

Sidoli Giuseppe, nato a Vernasca (Piacenza) nel 1906 e deceduto in Africa Orientale nel 1938. Alpino in servizio nel btg Uork Amba decorato di medaglia d'oro al valor militare:

"Durante un combattimento, benchè ferito ad una gamba, si difendeva animosamente a colpi di bombe a mano, sfuggendo alla cattura da parte di nuclei nemici. Sorpreso di nuovo dall'avversario e circondato mentre accorreva a prestare soccorso a un conducente rimasto ferito opponeva eroica resistenza sparando fino all'ultima cartuccia. Ferito ancora al petto, si preoccupava di porre in salvo un'arma, instradando verso le nostre linee il quadrupede che la portava. Colpito infine mortalmente alla testa, lasciava gloriosamente la vita sul campo. esempio fulgidissimo di valore, spinto al supremo sacrificio. (Tarà  Mosovic 14 dicembre 1938)"
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Claudio ha poi aggiunto ulteriormente:

Durante la seconda battaglia del Tembien, combattuta tra il 27 ed il 29 febbraio 1936, ebbero parte di rilievo i battaglioni complementi VII e XI della divisione Pusteria. Ad essi venne affidata l'occupazione dell'Amba Uork, pilastro occidentale del Passo Uarieu, fortissima posizione dominante il fianco destro del nostro schieramento.
Un reparto di rocciatori costituito da una trentina di alpini del VII battaglione complementi ed una quindicina di ascari, al comando del tenente Gustavo Rambaldi, doveva impadronirsi della punta meridionale. Un plotone della 643a compagnia agli ordini del tenente Reatto doveva appoggiare gli alpini di Rambaldi e occupare un valico al quale giungeva, dal versante opposto, un sentiero. Contemporaneamente un manipolo della 114a Legione CC.NN., anch'esso rinforzato da ascari, doveva assalire la punta settentrionale.
Il tenente Rambaldi uscì con i suoi uomini dalle linee e, dopo aver percorso circa due chilometri attraverso la boscaglia, raggiunse la base della montagna. Qui s'avvide d'aver perduto il collegamento con il plotone del tenente Reatto, ma si accinse ugualmente alla scalata.
Gli alpini incontrarono notevoli difficoltà  alpinistiche, tanto che gli ascari non riuscirono a seguirli su quell'itinerario. Nel frattempo le camicie nere, che avevano incontrato minori ostacoli, riuscirono a raggiungere indisturbati il torrione settentrionale, sorprendendo il presidio etiopico che dormiva tranquillamente.
In quel momento gli alpini, per un ripido canalone, erano giunti sull'orlo del piano inclinato che saliva in vetta.
La precedente sparatoria sul lato settentrionale mise in allarme i difensori che cominciarono a sparare sugli alpini di Rambaldi, i quali , sebbene la sorpresa fosse sfumata , andarono ugualmente all'assalto della difficile posizione.
Cadde colpito a morte il sergente Bait e numerosi furono i
feriti, ma i superstiti rimasero lassù aggrappati alle rocce, e di là  agevolarono l'azione del VII battaglione verso Passo Ua-rieu.
Il plotone inviato a sostenere il reparto rocciatori fu bloccato dagli abissini che avevano raggiunto la forcella, ed il suo comandante, sottotenente Costa, venne colpito a morte. Altri tre ufficiali del battaglione caddero in quel giorno: il tenente Reatto ed i sottotenenti Ciccirello ed Agnisetta (1).
A ricordo di questa rilevante azione alpinistica e militare, il VII battaglione complementi assunse la denominazione di “Uork Amba” con il motto: Le aquile rapirono l'oro alla montagna. (2)
Al termine della guerra, il 22 ottobre 1936 fu costituito a Feltre un altro VII battaglione complementi, composto tutto da volontari per l'Africa Orientale, che assunse — in un primo tempo — la denominazione: battaglione speciale alpini. Il battaglione sbarcò a Massaua il 15 gennaio 1937 e venne destinato a presidiare la capitale del nuovo Impero. Qui assorbì quel che rimaneva del vecchio battaglione Uork Amba, assumendone anche la denominazione.
Il reparto contava 27 ufficiali, 79 sottufficiali e 1031 alpini. In un primo tempo il comando era stato affidato al maggiore Romano Biasutti, al quale succedette — nell' aprile — il maggiore Gennaro Sora, una vecchia conoscenza degli alpini!


(1) Per questa azione vennero conferite due medaglie d'oro al valor militare:
Tenente Reatto Efrem: In duro combattimento, ferito gravemente, sdegnava cure e conforti rifiutando di abbandonare la linea; vista una sua mitragliatrice che tenuta sotto violento fuoco avversario aveva perduto i suoi serventi, la raggiungeva attraverso battutissima zona aprendo da solo il fuoco sul nemico. Nuovamente col-pito lasciava la vita sul campo. Magnifico esempio di superbo ardimento, di fiero stoicismo, di consapevole sacrificio.
Sottotenente Antonio Ciccirello: Figlio d'italiani all'estero, accorse volontario dal Perù per compiere i suoi obblighi di leva e sollecitava di partecipare alla cam-pagna etiopica dimostrando alto sentimento patriottico e grande dedizione al dove-re. Impegnato in asprissimo combattimento, dal quale dipendeva l'esito delle ulte-riori operazioni nel Tembien, si prodigava ove la lotta era più furibonda, facendo spostare le mitragliatrici nei punti più opportuni ed incoraggiando col suo sereno contegno i propri dipendenti. Dopo aver curato la postazione di un'arma, là  dove il nemico tentava un disperato assalto, e, mentre personalmente maneggiandola, mie-teva le file dei selvaggi assalitori, veniva colpito a morte, suggellando con il suo sa-crificio tutta una giovinezza volta al più ardente amor di Patria.
vii battaglione Alpini — Uork Amba — 27 febbraio 1936.
(2) La denominazione venne ufficialmente riconosciuta il 18 marzo 1937.
Dopo l'avventura del Polo ora gli toccava di combattere ai limiti dell' Equatore!
Stava per iniziare la seconda fase del conflitto africano, che venne allora definita come “Operazione di grande polizia”, un continuo ed insidioso susseguirsi di imboscate e combattimenti con bande di sciftà  guidate da Abebé Aregai, capo degli “Za-pagnà ” rifugiatosi nella zona di Debra Berhan.
Il tenente colonnello di Stato Maggiore Carlo Fassi, che aveva assunto in quel periodo la carica di Capo Ufficio Operazioni del proclamato ma non ancora pacificato impero, così ci descrive il suo incontro con gli alpini d'Africa: Riservai ovviamente la mia prima presa di contatto con i reparti della piazza di Addis Abeba al battaglione “Uork Amba” che si trovava allora in occupazione di sicurezza sulle alture a nord della capitale con un distaccamento a Entotto e Monte Susultà  a circa 3000 metri di altitudine.
Nei mesi che seguirono e cioè sino al sopraggiungere delle grandi piogge (maggio-settembre) il battaglione svolse un'intensa e multiforme attività , di carattere sia logistico che operativo.
Ricognizioni del territorio in gran parte boscoso, scorte armate a convogli e colonne, vigilanza diurna e notturna e costruzione di robuste opere murarie difensive, tecnicamente perfette ed esteticamente pregevoli.
Gli alpini erano riusciti a costruirsi anche un acquedotto di fortuna mediante condutture formate da tubi di lamiera ricavati da migliaia di bidoni di benzina. Veniva così assicurato il fabbisogno idrico anche per l'abbeverata dei muli e l'irrigamento di campi e orti. Gli alpini più che mai ingegnosi nel trarre vantaggio da ogni risorsa della zona avevano anche provveduto alla fienagione di vastissime praterie naturali sugli altopiani di Monte Susultà , e lunghe colonne di salmerie recavano la produzione agli alloggiamenti, accumulandola in grandi ammassi, quale riserva per la stagione piovosa.
Alla grande rivista militare che si svolse in Addis Abeba il 9 maggio 1937, il battaglione “Uork Amba”, con i suoi uomini fisicamente ben prestanti ed i muli pasciuti e lucenti, tutti in perfetto ordine di sfilamento, riscosse unanimi espressioni di lode e compiacimento.
Poi ebbe inizio la dura fatica per costruire una linea di for-
tini ed il servizio di protezione per le colonne dei lavoranti im
piegati sulle strade del Gimma.
Infine giunse il periodo delle piogge ed i primi scontri a fuoco con gli sciftà : uomini e muli non ebbero più sosta, dovettero marciare su piste fangose, negli acquitrini melmosi ed attraversare a guado torrenti impetuosi, straripati dai loro argini.
Sora con una colonna di oltre 150 muli raggiunse Gimma, superando fra difficoltà  immani l'Omo Bottego e poi rientrò ad Addis Abeba, con gli uomini decimati dalla malaria ed i quadrupedi sfiancati dalla fatica.
Nella regione fra Gheddò ed il Nilo Azzurro il battaglione occupò e presidiò il Monte Amara, lungo la strada da Addis Abeba a Lekemti, dove costituì una base per le colonne operanti verso il Nilo Azzurro.
Nel dicembre del 1937 assunse il comando del battaglione il maggiore Luigi Macchia.
11 31 maggio 1938, cadeva il sergente maggiore Luigi Spellanzon, che apparteneva all' Uork Amba ma che aveva assunto il comando di una banda indigena (1).
Nell'ottobre del 1938 il battaglione si trasferì nella località  fortificata di Ghinna Agher (Villaggio del Diavolo), una zona desolata in prossimità  del monte Meghesez (m 3600), la più elevata montagna della regione di Ancober.
Dopo pochi giorni il reparto venne attaccato da formazioni di ribelli ben armate e rapide negli spostamenti, perché quasi tutte montate a cavallo.
Il 14 dicembre, una colonna di salmerie del battaglione, mentre percorreva l'angusto solco del Tarà , una specie di canyon, cadde in una imboscata.

(1) Alla sua memoria venne concessa una medaglia d'oro con la seguente motivazione: Già  volontario in parecchie azioni di guerra, durante un combattimento guidava più volte la sua banda in un susseguirsi di aspri sanguinosi episodi. Gravemente ferito all'addome, sebbene conscio del suo grave stato, non abbandonava i gregari, che continuavano l'azione infiammati dal suo ardimentoso contegno. Due giorni dopo, nuovamente attaccato, mentre barellato e scortato da gregari armati si trasferiva in località  sede di ospedale tra spasmi della carne, con sublime eroismo, impegnava nuovo cruento combattimento, rimanendo ancora ferito al torace. Caduti ad uno ad uno i vicini, pressato da ogni parte, trovava ancora la forza d'im-pugnare la pistola, uccidendo parecchi avversari, finché colpito alla fronte cadeva travolto dalla selvaggia irruenza nemica. Fulgido esempio di virtù militari.
Augodegò, 31 maggio 1938.
Sulle dorsali rocciose che dominavano la pista apparvero improvvisamente centinaia di sciftà , in reparti ben inquadrati con armi automatiche e divise color kaki.
Gli alpini che proteggevano la colonna si accinsero a controbattere il fuoco proveniente dall'alto, ma era una lotta impari perché si trovavano come nel fondo di un grande budello.
Ciò nonostante gli “ sconci” riuscirono ad aprirsi un varco. Sistemandosi a difesa su di una piccola altura, contro la quale s'infransero numerosi assalti dei ribelli. (1)
Nel frattempo il rumore della battaglia giunse anche al fortino di Ghinna Agher ed una colonna di rinforzi uscì per dar man forte alle salmerie, ma anch' essi vennero attaccati poco oltre il fortino Mosobit.
La prima imboscata era soltanto una trappola per poi attaccare in forze gli alpini inviati in soccorso.
Tutta la zona pullulava di migliaia di sciftà  agli ordini di un luogotenente di Abebè Aregai: il Sciangutiè. I ribelli, in numero preponderante, sfruttando abilmente il terreno tentarono una manovra di accerchiamento, ma le due colonne: salmerie e rinforzi riuscirono a stabilire un contatto. Poi Alpini e muli ripiegarono sotto la protezione della sezione mitraglieri, che sparava senza un attimo di sosta.
Due capiarma, i caporalmaggiori Bagnarol e Gos, con pochi uomini rimasero sino all'ultimo in postazione per proteggere il ripiegamento della colonna.
Gos venne colpito al petto, ma continuò a sparare. (2)

(1) Al comandante della colonna sottotenente Luigi Bertozzi di Torino venne conferita la medaglia d'argento al v. M. con la seguente motivazione:
Comandante la scorta di una colonna salmerie, sventava con abile manovra un attacco di forti nuclei ribelli, contrattaccandoli e strappando loro una posizione utile alla difesa della colonna. Manteneva la posizione stessa per oltre cinque ore, rigettando i reiterati assalti del nemico, al quale infliggeva gravi perdite. Successivamente, alla testa di pochi uomini, riusciva a recuperare la salma di un alpino contendendola all'avversario a colpi di bombe a mano.
Tarà -Mosobit 14 dicembre 1938.
(2) Alla sua memoria venne conferita la medaglia d'argento al v. M. con la seguente motivazione:
Caporal maggiore Gos Enzo di Codroipo (Udine): Comandante di squadra mitragliatrici d'accompagnamento, ferito gravemente al petto rifiutava ogni soccorso
e rimaneva al suo posto di combattimento continuando fino all'estremo delle forze a far fuoco sui ribelli. Spirava serenamente sul campo con la visione del nemico in fuga.
Tarà -Mosobit 14 dicembre 1938.


Bagnarol invece s'accasciò sull'arma, colpito a morte: la sua sal-
ma — quando ormai era già  calata la notte — venne contesa a colpi di bombe a mano ai ribelli.
Altri ribelli a cavallo stavano giungendo sul luogo del com-battimento a gran galoppo e bisognava fermarli prima che si unissero al grosso degli attaccanti.
Un alpino, Giuseppe Bertossin, con pochi compagni si fece
avanti con il suo moschetto e con le bombe a mano ed ingaggiò
una violenta lotta con i sopraggiunti cavalieri, finché, colpito a
morte, non venne travolto. (1)
Il sole stava ormai per volgere al tramonto: giù in fondo nel canyon del Tarà  è ormai tutto in ombra, ma i ribelli non desistono ancora dai loro attacchi.
Un altro alpino: Giuseppe Sidoli si sacrificò da solo per tenere a bada l'ultimo assalto degli sciftà , che finirono per massacrarlo. (2)
La foga dei ribelli, che già  avevano subito perdite gravissime e fra queste quattro sottocapi si spense gradualmente: la colonna frattanto riuscì a raggiungere il fortino di Mosobit, rientrando durante la notte a Ghinna Agher.
Nel corso del 1939 il battaglione agli ordini del tenente colonnello Luigi Viglieri, partecipò al altre operazioni di polizia con il gruppo bande indigene comandate dall'alpino colonnello Rolle.

(1) Alla sua memoria venne conferita la medaglia d'argento al v. M. con la seguente motivazione:
Alpino Bertossin Giuseppe di Prepotto (Udine):
In combattimento contro numerose forze ribelli, con spirito di sacrificio e sprezzo del pericolo affrontava da solo un nucleo di ribelli a cavallo infiltratosi nel nostro schieramento. Infliggeva perdite all'avversà rio e si difendeva arditamente sparando fino all'ultima cartuccia, finché sopraffatto dal numero cadeva eroica-mente sul campo.
Tarà -Mosobit 14 dicembre 1938.
(2) Alla memoria venne conferita la medaglia d'oro al V. M. la seguente motivazione:
Alpino Sidoli Giuseppe di Vernasca (Piacenza). Durante il combattimento, benché ferito ad una gamba, si difendeva animosamente a colpi di bombe a mano, sfuggendo alla cattura da parte di nuclei nemici. Sorpreso di nuovo all'improvviso e circondato mentre accorreva a prestare aiuto ad un conducente rimasto ferito, opponeva eroica resistenza sparando fino all'ultima cartuccia. Ferito ancora al petto, si preoccupava di porre in salvo un'arma, instradando verso le nostre linee il quadrupede che la portava. Colpito infine mortalmente alla testa, lasciava gloriosamente la vita sul campo. Esempio fulgentissimo di valore, spinto fino al supremo sacrificio.

Nel novembre 1939 assunse il comando il maggiore Luigi Peluselli, che riuscì a conferire al reparto un'impronta maggiormente alpina, anche dal punto di vista formale.
Egli volle — per prima cosa — che fossero distribuiti vestiano ed equipaggiamento tradizionali: uniformi grigioverdi
in luogo di quelle coloniali, cappello alpino, scarponi e sacco da montagna.
Allo scoppio della guerra, nel giugno del 1940, il battaglione fu destinato alla difesa della capitale minacciata dalle bande di sciftà , e poi in ottobre inviato a presidiare una vastissima zona lungo l'asse stradale diretto al fiume Omo Bottego. Al battaglione furono assegnati in rinforzo un reparto coloniale, due gruppi di squadroni denominati “Aquile Nere” e numerose bande armate.
In quel periodo il battaglione compì una lunga marcia di penetrazione e di rastrellamento, attraverso dorsali boscose ed impervie, della durata di sei giorni.
Il 3 febbraio 1941 l'Uork Amba venne trasferito in autocarro all'Amba Alagi, ma un improvviso contrordine lo dirottò verso l'Asmara, dove giunse cinque giorni più tardi.
Il comando del Settore Nord assegnò il battaglione in rinforzo alle truppe che difendevano Cheren dall'offensiva della 4a divisione anglo-indiana. A sbarrare loro la via per Asmara non rimaneva che la barriera montana a occidente e a sud-ovest di Cheren.
In un primo tempo, all'Uork Amba venne assegnato il compito di minacciare alle spalle le truppe che attaccavano Cheren per allentare la pressione. Il battaglione raggiunse Abi Mentel e poi la testata della Valle Bogù ma, mentre si stava organizzando a difesa, venne spostato ai piedi del Monte Amba, per una importante azione di contenimento.
L'arco di cerchio formato dai monti che rinserrano la piana di Cheren verso Occidente,e verso sud è interrotto dalla Stretta di Dongolaas, nella quale s'insinua da occidente la valle Hagas, che rappresenta la principale direttrice d'avanzata degli anglo-indiani, percorsa dalla ferrovia e dalle rotabile proveniente da Agordat.
Per sei giorni gli attaccanti, mentre le loro artiglierie battevano ogni settore con un concentramento imponente di pezzi d'ogni calibro, si sono dissanguati attaccando sul Sanchil, sul Dologorodoc, nello Zelalè, sul Falestoh, tentando di penetrare nella gola del Dongolaas, per occupare la Cima Biforcuta ed affacciarsi sulla piana del Mogareb.
La prima fase della battaglia si era svolta dal 2 al 13 febbraio senza riuscire a scardinare la difesa che il generale Nicola Carnimeo aveva allestito a tempo di record, con truppe fra le più disparate giunte da ogni parte dell'ormai vacillante Impero.
Fallito l'attacco sferrato la sera del 7 febbraio dalla valle Bogù contro i monti Falestoh e Zelalè, durante il quale unità  indiane penetrando lungo il colle (Acqua Col) erano giunte fin nei pressi di Cheren, per essere poi ricacciate dal battaglione coloniale Toselli e dal 3° Gruppo di cavalleria indigena, il generale Beresford Peirse, ricevuto altri rinforzi, organizzò un'attacco a nord e a sud della stretta di Dongolaas per il pomeriggio del 10 febbraio.
Verso le ore 19 il 3° battaglione del 1° Regg. Punjab mosse all'assalto di Cima Biforcuta (che gli inglesi denominavano Brig's'Peak) nel settore tenuto dal 97° battaglione coloniale e se ne impadronirono.
La minaccia è grave: gli inglesi sono riusciti ad aprire una falla nel nostro schieramento per la lunghezza di un chilometro e si sono impadroniti di un magnifico osservatorio sulla piana di Cheren.
Il generale Carnimeo affidò l'incarico di rioccupare la posizione perduta al battaglione Uork Amba, che venne subito autotrasportato
nel settore settentrionale.
Durante il trasferimento, il battaglione subì violenti attacchi aerei ed ebbe le prime sensibili perdite.
L'ultimo tratto di strada, prima di giungere sulla base di partenza per l'attacco (Monte Amba m 1835) venne percorso con un ripido balzo di tutto il battaglione appiedato per sottrarsi al tiro delle artiglierie che gli inglesi avevano portato in linea sulle alture conquistate.
Finalmcento alle 18,30 del giorno 11 febbraio 1941 cinquecento alpini si radunarono a ridosso del Monte Amba: un terzo battaglione con tutti i servizi era rimasto scaglionato lungo il percorso per le avarie e le distruzioni dovute ai bombardamenti aerei.
Riconosciuto il terreno, illuminato da una splendida luna, e presi accordi con l'artiglieria, il tenente colonnello Peluselli lanciò il battaglione al contrattacco alle ore 22,30 di quello stesso giorno.
Un errore di segnalazione delle linee tenute dalle truppe del colonnello Corsi ne pregiudicò seriamente la prima fase.
Mentre gli alpini, infatti, procedevano in un tratto che era stato indicato come tenuto da reparti italiani, si trovarono di colpo in presenza del nemico.
Furono subito investiti dal tiro delle armi automatiche (in due giorni gli inglesi avevano costituito una ventina di postazioni con mitragliatrici) e battuti in pieno dallo sbarramento di artiglieria, ma non si arrestarono. Trascinati dall'esempio del loro comandante, ferito dallo scoppio di una granata che l'aveva sbalzato contro una roccia, gli alpini si avventarono come un sol uomo contro la linea avversaria.
Il nucleo arditi della 2a compagnia comandato direttamente dal capitano Carmelo Romeo, (1) risalì in silenzio un costone alle spalle del nemico. I diciannove uomini, con i fucili a tracolla ed il tascapane colmo di bombe a mano, risalirono lentamente il pendio, attenti a non far cadere sassi. Giunsero ad una prima postazione di mitraglia e la distrussero; poi si avventarono contro la Cima Tre. Intanto la nostra artiglieria, individuati i bersagli e aggiustato il tiro, batteva efficacemente lo schieramento anglo-indiano, guidata da continue segnalazioni con razzi.
A Cima Due una postazione di mortai inglesi da 81 fu travolta in pochi secondi e poi fu la volta del cosidetto “Nido d'Aquila”: ora la vittoria poteva dirsi completa!

(I) Al capitano Carmelo Romeo venne conferita la medaglia d'argento al V.M. con la seguente motivazione:
Comandante la compagnia di testa, con animo indomito, con sprezzo della vita, affrontava centinaia di volte la morte per trascinare la propria compagnia all'attacco di posizioni di forme veramente dolomitiche e a colpi di bombe a mano, di sasso in sasso, di guglia in guglia, dopo quattro ore di combattimento, ne snidava il nemico che si difendeva strenuamente, togliendogli una posizione di importanza strategicamente capitale
Dopo quattro ore di lotte gli ottomila indiani Sik del battaglione Punjab, inquadrati da undici ufficiali inglesi ripiegarono nuovamente sulle posizioni di partenza, lasciando fra i roccioni ben 280 caduti.
Fu catturato un ingente bottino di armi e materiali vari: in una caverna gli alpini trovarono delle pentole sul fuoco contenenti il rancio ancora caldo, e ne approfittarono.
Fra i prigionieri, un capitano ferito, non volle assolutamente ammettere che gli alpini attaccanti non arrivassero, numericamente, alla forza di due compagnie.
Innumerevoli furono gli atti di valore individuale; fra tutti ricordiamo quello dell'alpino De Gaspari che, fattosi sostituire quale conducente, per partecipare alla battaglia, cadde conquistando l'ultimo spuntone roccioso rimasto in mano al nemico.
Le perdite del battaglione furono di ottanta alpini che vennero sepolti in un piccolo cimiterino scavato fra le rocce della Cima Biforcuta. Qualcuno dei superstiti inchiodò su di un'asse una lamiera squarciata da una scheggia e su di essa scrisse:
Anima devota e patriota che giri lo sguardo su queste rocce sacre alla gloria alpina, alza il pensiero alla misericordia divina, recita un requiem per gli eroici caduti, figli del battaglione Uork Amba.
La reazione avversaria si scatenò furibonda sulle posizioni riconquistate e per 48 ore gli alpini dovettero respingere numerosi tentativi di contrattacco.
Già  all'alba del giorno 12 febbraio l'artiglieria britannica martellò le nostre posizioni tra lo Zelalè e il Falistoh, sparando in un' ora più di settemila colpi, poi altre forze vennero lanciate all' attacco della selletta “Acqua Col”. Il 4° battaglione eritreo ‘Toselli” subì perdite atroci (12 ufficiali e 500 ascari in pochi minuti) ma non indietreggiò.
In suo aiuto corsero i reparti di seconda linea, fra i quali i conducenti di una corvè someggiata, che si trovava sulle prime pendici del Falestoh.
Abbandonati i muli con i cassoni del rancio, piombarono sul fianco degli attaccanti con la baionetta in canna e contri-buirono in modo determinante a mettere in fuga i fierissimi guerrieri indiani.
Il generale William Platt non sapeva come uscire da quella
che venne poi definita la “ "Happy Valley” (Valle felice): un giorno che osservava con il binocolo le posizioni della Biforcuta forse capì perché i suoi uomini non riuscivano a passare di là . Rivolgendosi al suo brigadiere, generale Messervy ed indicandogli le montagne che aveva di fronte, chiese: Son forse capre, quelle ombre che vedo saltare sul monte?
— Non propriamente, signore — rispose Messervy — sono soldati. Sono quei soldati che gli italiani chiamano alpini!
Il 24 febbraio gli alpini furono chiamati a difendere un nuovo settore quello che partiva da Monte Samanna e arrivava fino a Beit Gabrù, estendendosi, in linea d'aria,, per almeno quattro chilometri. Gli furono assegnati in rinforzo due battaglioni ascari, una batteria ed alcune sezioni di bombarde. I reparti ascari erano molto provati, ma l'immissione di graduati alpini nei loro ranghi valse a ristabilire lo spirito combattivo, fiaccati dai lunghi mesi di attesa e dall'estenuante lotta difensiva.
Si andava intanto avvicinando la grande offensiva inglese su Cheren.
Dopo cinquanta giorni di assedio, ed esaurite tutte le possibilità  diversive non rimaneva che l'attacco frontale in questa strettissima gola che sbocca nella conca di Cheren. Gli italiani avevano interrotto la strada per un centinaio di metri ma il comando inglese giudicò che fosse possibile giungere sino al punto dell'interruzione, ripristinare la strada in modo da far passare le autoblindo ed i carri armati. Quando il generale William Platt, comandante di tutte le forze inglesi ed alleate impegnate in Africa Orientale Italiana, espose questo piano al generale Wawell giunto in volo fin lì dal Cairo, esponendogli anche le sue gravi preoccupazioni in proposito, tra l'altro gli chiese: E se il piano non riesce, cosa farete?
— Non ne ho la minima idea, signore — rispose Platt!
All'alba del 15 marzo, dopo giorni e giorni di martellamento aereo ebbe inizio un terrificante tiro d'interdizione da parte delle artiglierie britanniche, cui seguì l'attacco delle fanterie.
La lotta divampò in particolare sul Monte Sanchil ed alle falde del Dologorodoc, i due caposaldi che sbarravano l'ingresso nella stretta di Dongolaas, e si estese al settore tenuto dall'Uork Amba, sull'ala settentrionale. Qui ricostituì la line interrotta sulla sinistra del monte Samanna e riuscì ad eliminare il pericolo di sfondamento del fronte, riconquistando il Monte Panettone, con audace azione notturna.
Un ufficiale e sette alpini tennero testa da soli al nemico, sacrificandosi tutti, ma permettendo l'accorrere dei rinforzi. Un alpino gravemente ferito, strappava coi denti la sicurezza delle bombe e le lanciava sui nemici per ripagarli delle mutilazioni subite: i portaferiti dovettero allontanarlo a viva forza.
(1)
All'alba del 16 febbraio la 9a brigata della 5a divisione anglo-indiana riuscì ad occupare la vetta del monte Dobogorodoc e subito il generale Platt, volendo sfruttare l'unico successo della giornata, fece entrare in azione la 29a brigata da questa posizione avanzata verso le due contigue montagne: il Zfale-stoh e il Monte Zeban.
I reparti indigeni tennero duro e contrattaccarono ma senza poter rioccupare la vetta del Dobogorodoc.
Intanto nel settore affidato agli alpini la pressione nemica sembrò allentarsi ed il tenente colonnello Peluselli sperò di poter avere un po' di respiro.
Nel pomeriggio del 17 marzo gli giunse invece la notizia della morte del colonnello Lorenzini e l'ordine di tenersi pronti per una nuova azione.
Di fronte all' aggravarsi della situazione il generale Carnimeo ricorse ancora agli alpini ed in un concitato colloquio con il tenente colonnello Peluselli disse che “agli alpini si può chiedere l'impossibile.”Un altro grave compito stava per essere affidato al battaglione, da due mesi in combattimento e da sessanta ore impegnato in una strenua difesa ad oltranza. Peluselli chiese almeno un paio d'ore di riposo per i suoi uomini ormai stremati, ma non gli vennero concesse. A questo rifiuto gli


(1) In questa azione perse la vita il tenente Bortolo Castellani da Belluno, al quale venne conferita la medaglia d'oro al V.M. con la seguente motivazione:

Alla testa del suo plotone, a cui aveva saputo infondere l'altissimo spirito del quale si sentiva animato, in un ardito attacco a posizione montana, ricacciava il nemico con numerosi personali attacchi e assalti a bombe a mano, cooperando decisamente alla riconquista della posizione ed alla cattura di prigionieri. Benché ferito e febbricitante, partecipava ad una sanguinosa azione che durava da varie ore, prendendo il posto di altri ufficiali rimasti feriti, volontariamente si offriva poi per riconquistare un posto avanzato, caduto in mano del nemico; mentre trascinava i suoi uomini con superbo coraggio, cadeva colpito a morte. Magnifica figura di eroico combattente.
Cheren (A.O.) 11 febbraio — 16 marzo 1941
rispose che l'onore degli alpini veniva prima d'ogni altra cosa e parlò ai superstiti del battaglione, i quali spontaneamente si dichiararono pronti a ripartire.
Il battaglione raggiunse autocarrato la nuova zona d'impiego ed alle 23,45 del 17 marzo attaccò le posizioni del Dolo-gorodoc, perse 24 ore prima. Mentre gli alpini avanzavano con estrema decisione, sulla loro sinistra gli ascari non si mossero, forse perché non interpretarono nel giusto significato i razzi di segnalazioni lanciati dall'Uork Amba, mentre le armi del settore di destra, mitragliatrici e fucili mitragliatori, cui si aggiunsero purtroppo le salve delle batterie italiane di appoggio, iniziarono un tiro cortissimo che rovesciò una gragnuola di proiettili sui plotone alpini, ormai in piena azione, anzichè sui trinceramenti degli inglesi.
Il nemico ne approfittò per sferrare un contrassalto sulla destra, favorito dall'inerzia degli ascari, ed in meno di un'ora il battaglione perse il 60% dei suoi effettivi.
Lo slancio iniziale venne tragicamente bloccato e gli alpini dovettero ripiegare tra il Monte Sonchil ed il Falestoc.
Mancando di un collegamento radio con il Comando superiore non si potè neppure avvisare i reparti laterali dei loro fatali errori.
Il giorno seguente, alle ore 17 giunse un nuovo ordine di attacco che diceva fra l'altro: ... pur conoscendo le condizioni morali e materiali del battaglione... L'Uork Amba, depositario delle glorie alpine in Africa, saprà  essere d'esempio e guida ai reparti coloniali.
Gli alpini scattarono ancora una volta in avanti, ma dovettero arrestarsi per la violenta reazione avversaria, facilitata dall'ottima visibilità . Lo sforzo si ripeté all'imbrunire con in-credibile ostinazione: ma ferito il comandante di battaglione, morti o feriti quasi tutti gli ufficiali e sottufficiali, il reparto finì per dissanguarsi. (1)

(1) In questa azione cadde il sottotenente Bruno Brusco da Verona alla cui memoria venne conferita la medagli d'oro al V.M. con la seguente motivazione:
Comandante di plotone fucilieri alpini, con l'esempio, perizia e coraggio concorreva all'occupazione d'importantissima e munita posizione montana che teneva poi saldamente nonostante i ripetuti contrattacchi nemici. Pronunciatosi un forte attacco nemico, alla testa del proprio plotone partecipava ad una eroica e dura lotta
di oltre due giorni concorrendo con il proprio esempio ed indomito coraggio a stroncare la baldanza nemica.
Successivamente, benché febbricitante, prendeva parte ad una nuova azione, riuscendo anche in tale occasione a dare prova di vero coraggio portando di slancio i propri uomini oltre i reticolati nemici. Benché colpito da un braccio, incurante di se stesso, sempre alla testa del suo plotone ed al grido di « forza alpini », li trasci-nava alla lotta corpo a corpo col suo nemico sino a che colpito a morte cadeva eroi-camente gridando: viva l'italia. Fulgido esempio di valor militare e di attaccamen-to al dovere. Cheren (A. O.) 11 febbraio - 18marzo 1941.
All'una del giorno dopo (19 marzo) in seguito alla disperata richiesta del Comando di Cheren, il capitano Rodolfo Muller guidò un quarto, assurdo tentativo di assalto.
L'offensiva britannica fu nuovamente sferrata all'alba del 25 marzo, con due brigate che attaccarono a fondo i due ver-santi della stretta di Dongolaas, riuscendo infine a scardinarne la resistenza.
I superstiti dell'Uork Amba contrastarono ancora il passo al nemico dalle pendici del Monte Zeban, finchè il giorno dopo (26 marzo) il Comando Superiore italiano decise di por fine ad ogni resistenza intorno a Cheren.
Un centinaio di alpini e due ufficiali si sottrassero alla cattura con una marcia di tre giorni e tre notti, fra i monti, sino a che raggiunsero Massaua. Qui il reparto fu rinforzato da una novantina di alpini giunti da Addis Abeba e posti al comando di alcuni ufficiali dimessi dagli ospedali ed ancora difesero la città  attaccata in forze 1' 8 aprile.
Così si concluse l'epopea dell'Uork Amba nel triste declino del nostro Impero in Africa Orientale.
Su di una forza complessiva di 21 ufficiali, 55 sottufficiali ed 840 alpini, il battaglione ebbe 323 caduti (5 ufficiali, 18 sottufficali e 300 alpini) e 460 feriti (14 ufficiali, 26 sottufficiali e 420 alpini): i superstiti furono 133 (2 ufficiali, 11 sottufficiali e
120 alpini).
Al battaglione Uork Amba venne concessa la medaglia d'argento al Valor Militare ed il suo comandante tenente colonnello Luigi Peluselli venne insignito della Croce di cavaliere dell' Ordine Militare di Savoia.


L'articolo di cui sopra è tratto dalla collana "I soldati" Gli Alpini
di L.Viazzi Ed. Ciarrapico 1978-79 1982
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