La caduta dei “confini”, e specificatamente quelli orientali, mi ha suscitato sentimenti opposti, da un lato soddisfazione, dall'altra un po' di amarezza.
La soddisfazione perché in fin dei conti è una vittoria, una grande vittoria contro quella assurda “cortina” che per anni in nome dell'ideologia aveva diviso l'Europa e coltivato odio fra le popolazioni. Oggi pian piano, tra molte difficoltà e con tante incomprensioni, cerchiamo, spero, la via per una convivenza pacifica nel rispetto dell'identità storica e culturale di ciascun paese, comunità , minoranza.
Non mi nascondo peraltro chee questi confini oggi vengono tolti essenzialmente per motivi d'interesse economico.
L'amarezza è per il fatto che, in fondo, i principali artefici di questa caduta dei confini (quelli nostri) in fondo in fondo sono coloro che li hanno difesi fino a ieri, in armi.
In questo frangente nessuno si è ricordato di loro, nemmeno per un semplice grazie.
Io il mio grazie l'ho già dato da tempo e continuerò a farlo.
Per quelle strane coincidenze della vita, uno dei miei ricordi più indelebili (e che tutto sommato penso abbia inciso nella mia formazione e nelle mie scelte successive) è proprio legato ad uno di questi “confini caduti”, forse il più propagandato e pubblicizzato in questi ultimi tempi: la piazza della vecchia stazione della Transalpina di Gorizia ovvero la stazione di Monte Santo.
Erano gli inizi degli anni 60 e fu la mia prima conoscenza con un confine, ma non era bello e sistemato come in tempi recenti, era un filo spinato buttato lì a dividere una piazza sterrata e dimessa ed allontanare dall'Italia il massiccio ed austero fabbricato della stazione, sul tetto del quale era stata eretta una grande stella rossa, forse a ricordare ed ammonire noi che stavamo di qua dal reticolato.
Oltre l'imponente edificio, guardando ad est ed allargando la visuale da nord e sud, ecco il Sabotino, il Monte Santo, il San Gabriele, più in la' la Selva di Tarnova poi il Carso del Faiti, del Veliki Hribak e via dicendo.
E ripensata oggi quanto era beffarda e bugiarda la scritta su quel cartello a penzoloni sul filo spinato: “confine provvisorio italo-jugoslavo”.
E la mia indelebile immagine della stazione di Monte Santo di quei duri anni ancora troppo vicini alla fine della guerra me la ritrovo identica, con la stessa angolazione, quasi fossi io il fotografo, in una cartolina d'epoca che volentieri qui ripropongo e dove il bianco/nero è ben sinonimo dello stato d'animo che sempre provo a guardarla.
Penso sia difficile per chi non ha vissuto, non ha visto, non ha “sentito” quei giorni, capire il clima pesante di quel confine, la “rabbia” dentro nel vedere ad esempio a Merna, alle porte di Gorizia, il cimitero profanato di fatto da un altro reticolato che divideva anche i morti in italiani e jugoslavi e ti occorreva il lasciapassare anche per mettere dei fiori sulla tomba della persona cara.
Oggi possiamo andare alla “Transalpina” come ad una passeggiata in centro, i più giovani ora ed ancor più fra qualche anno niente sapranno o ricorderanno della storia del nostro dopoguerra e di questo confine impostoci e pomposamente definito “linea Morgan”, perderemo la nostra memoria perché in tanti c'è la paura di raccontare i fatti e preferiscono l'oblio e la gita fuori porta ai casinò di Nova Gorica e dintorni.
Scusate se ho forse ripetuto cose già dette in passato ma questo è quello che mi è passato ripetutamente, vorticosamente quanto nitidamente in questi giorni.

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..... E PER RINCALZO IL CUORE!