Oggi 26 gennaio è uno di quei giorni da ricordare eternamente in memoria e ricordo del coraggio e dello spirito di sacrificio dei nostri Soldati.
Il 26 gennaio 1943 quel che restava del Corpo d'Armata Alpino accerchiato da preponderanti forze sovietiche riusciva ad uscire dalla "sacca" dopo una tragica quanto eroica ritirata dal Don.
Di Nikolajewka e della ritirata hanno parlato gli storici e molti protagonisti, qui sotto riporto alcune righe di un grande cantore di quegli avvenimenti, Giulio Bedeschi, Ufficiale medico della 13^ batteria del gruppo Conegliano, 3° reggimento artiglieria alpina, divisione "Julia" che ha reso eterna la sua testimonianza in "Centomila gavette di ghiaccio".
A Nikolajewka, quel 26 gennaio, finisce la storia degli Alpini ed inizia la loro Leggenda.
........................................
— La Tridentina ha progredito in qualche punto — comuÂnicò una voce eccitata risalendo a ritroso la colonna — incontra molta resistenza presso la ferrovia e la chiesa, fra poco sferrerà l'attacco decisivo: tenersi pronti a buttarsi avanti per sfruttare il primo successo.
Poco dopo infatti, nell'ultima luce del giorno, con uno sforzo supremo le forze ancor valide della Trìdentina si gettaÂrono all'attacco con alla testa il battaglione Tirano, travolsero d'impeto alcuni centri di resistenza nemica, già l'esultanza si diffondeva nelle schiere impotenti e ferme intorno alle slitte; ma un urlo di raccapriccio si levò dalla marea di disarmati in attesa sul costone quando, bruciata ogni energia nello slancio dell'assalto e sopraffatti dal fuoco nemico, gli attaccanti tenÂtennarono sulle posizioni conquistate e non reggendo al conÂtrattacco russo presero a ripiegare verso le slitte; nell'assalto erano morti il generale Martinat e quaranta ufficiali.
Alla vista dei dimezzati battaglioni alpini retrocedenti, la tragedia ultima si delineò con definitiva chiarezza fra la massa degli uomini in attesa: incalzando le ultime forze italiane sbaÂragliate, i russi le avrebbero respinte fino a ridosso delle slitÂte, e infierendo nel dolorante corpo della colonna avrebbero concluso con una carneficina l'ultima fase del combattimento. Innanzi a Nikolajewka, pervenendo dal calvario lungo il quaÂle s'era trascinata, la sanguinante colonna nella luce di quel tramonto vedeva ormai innalzarsi un'unica croce e spalancarsi una sola fossa; innanzi a Nikolajewka Iddio parve in quella sera aver posto sulla neve il dito gigantesco, a indicare il terÂmine all'inaudita tortura.
Ma altro si rivelò, in quell'ora, il disegno eterno.
Un uomo, un solo uomo sommò nell'animo la disperata anÂgoscia di tutti, vedendo i suoi alpini retrocedere combattendo sulla neve; i suoi alpini, poiché egli era il generale Reverberi comandante la Trìdentina; e dalla somma di dolore gli scaturì dall'anima un gesto ed un grido.
Fu una cosa semplice, ma condotta a cavalcioni della morte.
Esisteva ancora un rugginoso carro blindato germanico in grado di rotolare i suoi cingoli sulla neve grazie a pochi litri di carburante residuo; su quello il generale si slanciò, salì ritto sul tetto, diede un secco ordine al guidatore, il carro si mosse avanzando verso i battaglioni in ripiegamento e verso il neÂmico.
— Trìdentina... Trìdentina avanti,..! — gridò con forza selvaggia il generale Reverberi dall'alto del carro in movimenÂto, indicando col braccio puntato Nikolajewka.
Non fu lasciato avanzare solo: i suoi alpini, riserva disarmata, si gettarono avanti seguendo il carro; generale e soldati raggiunsero i battaglioni che, elettrizzati, fecero massa compatÂta: il carro sopravanzò trascinando seco il cuore e l'ansito dell'intera divisione; quell'uomo ritto sul tetto metallico non cadde, non fu trapassato, Iddio lo lasciò in piedi, gli consentì di guidare gli alpini fin sulle difese nemiche, di travolgerle in uno slancio furibondo, di rovesciare i cannoni fumanti, di porÂre in fuga i russi conquistando Nikolajewka e aprendo il varco entro cui dal costone, come richiamata dalle soglie della morte, irruppe la marea d'uomini dilagando nel paese.
.................................................. ........
Ogni tanto sarebbe bello che qualcuno dei nostri "giornalisti" si ricordasse di queste e altre ricorrenze. Ma forse è meglio così, ricordiamo noi e pochi altri, evitando che l'incredibile abilità della maggior parte di chi fa informazione, trasformi una ricorrenza in uno zibbaldone di notizie approssimative ristretto in pochi minuti si servizio di coda al tg.
""""""
L'ultima battaglia della nostra ritirata di Russia, la battaglia della disperazione e della salvezza per sfondare lo sbarramento sovietico a Nikolajewka, iniziò all'una di notte del 26 gennaio 1943.
Il Corpo d'Armata Alpino, accerchiato da reparti corazzati, aveva cominciato a ripiegare dalla linea del Don il giorno 17: in quel momento, il generale Gabriele Nasci, comandante del Corpo d'Armata, poteva contare su 57.000 uomini, nelle divisioni "Cuneense", "Julia", "Tridentina" e "Vicenza". Dopo nove giorni di combattimenti e di marce in condizioni ambientali tremende, nella neve ora gelata ora sabbiosa in cui si affondava sino al ginocchio, e con un freddo fra i 30° e i 40° sottozero, le nostre truppe si trovarono decimate. Migliaia di alpini erano morti e migliaia erano stati catturati dai russi.
Il 25 gennaio, vigilia della battaglia di Nikolajewka, secondo una relazione del comando del Corpo d'Armata, la situazione era la seguente: "La divisione "Cuneense", durante la sosta notturna a Derkupsakaja, è circondata da ingenti forze corazzate russe e di essa non si hanno più precise notizie: certo è che il giorno 25 gennaio scompaiono dalla lotta anche i reparti della divisione "Cuneense" e "Vicenza". La "Julia" più non esiste dal giorno 22. Rimane organica la sola "Tridentina", anch'essa duramente provata e paurosamente ridotta in fatto di uomini efficienti, di armi e di munizioni: ad ssa si accodano migliaia e migliaia di sbandati, non tutti armati, in parte congelati, stremati, che si trascinano più che camminare".
In queste condizioni, la "Tridentina" arrivò verso le 15 del 25 gennaio nel grosso villaggio di Nikitowka, ai margini della vasta piana nevosa che porta a Nikolajewka. Alle spalle della divisione veniva l'immensa colonna dei quarantamila sbandati. Erano italiani, ungheresi, tedeschi che avevano perso il contatto con i propri comandi e fuggivano il combattimento, in attesa che i pochi reparti uniti aprissero loro la strada verso ovest.
A Nikitowka, i battaglioni della "Tridentina" ebbero una breve sosta, la prima dall'inizio della ritirata. Il colonnello Giuseppe Adami, comandante il 5° Reggimento Alpini, così ricorda quel giorno: "Concorre a ridare fiducia agli uomini il sole, l'assenza del vento, la temperatura alquanto mitigatasi, la frequente presenza ai lati della pista di isbe, la possibilità di trovare in esse in abbondanza pane, miele, uova, pollame, patate e rape. Gli alpini, dopo tanto digiuno, possono finalmente sfamarsi. Lo spirito si risolleva e le speranze si rinvigoriscono".
La mia compagnia, la 46^ del Battaglione "Tirano" (5° Alpini). Si disperse fra le isbe in cerca di un posto caldo per dormire, dopo notti e notti trascorse all'addiaccio. Eravamo partiti il 17 gennaio in trecentoquaranta e a Nikitowka ci ritrovammo in un'ottantina, di cui una decina feriti o congelati gravi.
Tutti eravamo più o meno congelati. Il nostro equipaggiamento, già disastroso all'inizio della ritirata, era ridotto a brandelli. Durante gli otto giorni di marcia, quasi tutti avevano gettato gli scarponi di tipo "standard", uguali per la Russia come per l'Africa, perché i piedi congelati gonfiavano, e li avevano sostituiti con strisce o involti di coperte. C'era anche gente scalza o con i piedi fasciati di paglia. Sotto i cappotti con l'interno di pelliccia indossavamo divise di falsa lana, dura come spilli. Gli unici indumenti caldi erano le calze e le maglie che c'eravamo portati da casa nostra la momento della partenza dall'Italia.
L'armamento, già insufficiente e superato, era stato in parte abbandonato sin dal primo giorno di ritirata per alleggerire le colonne. Avevamo conservato soltanto le armi individuali (il fucile modello 1891), qualche mitragliatore, poche mitragliatrici arrugginite, bombe a mano e scarse munizioni. Non esistevano slitte di dotazione, come invece avevano i tedeschi. Le nostre erano quelle portate via ai contadini russi, rozze e pesanti. Per fortuna, i muli c'erano, e furono la nostra salvezza.
Nella notte fra il 25 e il 26 gennaio, la temperatura riprese a scendere e ritornò quella degli altri giorni, sui 30° sottozero. Io dormivo in un'isba alla periferia di Nikitowka, verso Arnautowo. Eravamo una trentina, accatastati uno sull'altro. Con me stavano il comandante della compagnia, tenente Giuseppe Grandi, di 29 anni, di Limone Piemonte, e i sottotenenti Antonio De Minerbi, di Roma, Mario Torelli, genovese, e Raffaele De Filippis, di Campobasso. Verso l'una sentimmo gli scoppi vicini, come di bombe a mano. Qualcuno disse che c'era l'allarme, am eravamo disfatti e nessuno ebbe la forza di alzarsi. In quel momento era iniziata la battaglia per Nikolajewka.
Ad Arnautowo, un gruppo di case situato su una piccola altura ad un chilometro circa da Nikitowka in direzione di Nikolajewka, forze russe avevano attaccato all'improvviso il Battaglione "Val Chiese" del 6° Alpini e la 33^ Batteria del Gruppo "Bergamo". Contemporaneamente, altri reparti sovietici, affiancati da bande partigiane, avevano assalito a colpi di mortaio e di cannone anticarro il lato sud-ovest del nostro villaggio.
Noi non sapevamo nulla. Alle 4 del mattino il mio battaglione s'incolonnò pensando che finalmente iniziasse una marcia di trasferimento, una giornata relativamente tranquilla, senza essere di nuovo costretti a combattere per aprire la strada alla sterminata massa dei 40 mila sbandati che ci seguiva dall'inizio della ritirata. Il "Tirano", come battaglione di punta, si avvicinò ad Arnautowo su una pista in leggera salita. Per la prima volta il reparto marciava ordinato. Come sempre, gli sbandati si erano fermati a Nikitowka ed esitavano a seguirci, forse perché avevano compreso che i russi ci stavano aspettando al varco.
All'improvviso, piovvero sulla nostra colonna alcuni colpi di anticarro. Venivano da Nikitowka, alle nostre spalle. Vidi slitte e muli saltare in aria, e alpini morti e feriti. Ci fu un attimo di smarrimento, poi ci riordinammo e el compagnie del "Tirano" mossero in formazione d'attacco verso le isbe di Arnautowo.
Il primo di noi a trovare gli alpini del "Val Chiese" e gli artiglieri del "Bergamo" morti nei combattimenti della notte fu il sottotenente Torelli che cadde sotto il tiro dei russi con tutti i suoi uomini. Dopo di lui, partì il battaglione: la 49^ Compagnia a sinistra, la 46^ al centro e la Compagnia Comando con la 48^ a destra.
Lo scontro durò violentissimo sino alla tarda mattinata. Gli ufficiali andarono all'assalto alla testa dei loro alpini, con le armi che per il gelo si inceppavano. Il capitano Franco Briolini, di 35 anni, bergamasco, comandante la 49^, morì. Il mio comandante, tenente Grandi, e il tenente Giovanni Alessandria, di 26 anni, di Diano d'Alba, comandante la Compagnia Comando, vennero feriti gravemente. Caddero fra gli altri, i sottotenenti Giuliano Slataper. 21 anni, triestino; Giuseppe Perego, 23 anni, di Sondrio; Lorenzo Nicola, 26 anni di Piossasco (Torino) e Giovanni Soncelli, 28 anni, di Sondrio.
Alla fine i russi ripiegarono verso Nikolajewka. Noi restammo a raccogliere i feriti presso le isbe di Arnautowo. Grandi, colpito all'addome, era steso sulla neve, nel freddo. Cantava, cantava con un filo di voce e voleva che i suoi uomini cantassero con lui la canzone del capitano ferito. All'intorno giacevano decine e decine di alpini morti. Fra essi il sergente maggiore Stefano Robustelli, di 27 anni, di Grosio (Sondrio); il caporalmaggiore Cesare Marchetti, 25 anni, e il caporale Attilio Colturi, 24 anni, entrambi valtellinesi, e Giovanni Tiraboschi e Giuseppe Traina, ventenni.
La strada per Nikolajewka era aperta. Nella tarda mattinata arrivò il generale Luigi Reverberi, il valoroso comandante della "Tridentina", accompagnato dal colonnello Adami. Reverberi aveva 51 anni, era vestito come noi, con uno strano berretto di pelo alla russa. Stremato ma ancora combattivo ed energico, ordinò alla divisione di preseguire.
Mentre il "Tirano" contava i propri morti e tentava disperatamente di risolvere l'angoscioso problema del trasporto dei feriti, quarantamila uomini sfilarono davanti a noi, correndo con slitte e muli, senza degnarci di uno sguardo. In testa, come sempre, marciavano i pochi reparti organici della "Tridentina" . Al tramonto, i resti della mia compagnia - quattro slitte stracariche di feriti gravi, seguite a piedi da poche decine di feriti leggeri, di congelati, di disperati - si affacciarono per ultimi sulla piana di Nikolajewka.
La città era già avvolta nel primo buio. Per arrivarvi, bisognava scendere un breve declivio e poi superare il trincerone della strada ferrata, sul lato est. Dietro stava la linea avanzata russa con le armi anticarro, mortai, mitragliatrici. In complesso, le forze sovietiche ammontavano a circa una divisione. L'attacco a questo caposaldo era già iniziato sin dal mezzogiorno, quando noi ci trovavamo ancora ad Arnautowo. Il Battaglione "Vestone" del maggiore Bracchi e il Battaglione "Val Chiese" del tenente colonnello Chierici, affiancati da una batteria del Gruppo "Bergamo", avevano tentato di superare la ferrovia, ma erano stati bloccati dal fuoco nemico. Reverberi chiedeva l'intervento dell'"Edolo". Soltanto quest'ultimo, al comando del maggiore Belotti, poteva portarsi all'attacco perché noi del "Tirano" ci eravamo attardati nella marcia.
I resti di un gruppo corazzato tedesco aggregato alla "Tridentina" e comandato dal maggiore Fischer, appoggiavano l'azione con due cannoni controcarro semoventi e due carri armati leggeri. Arrivarono due aerei sovietici. Ronzarono a lungo, volando così bassi che si vedevano le stelle rosse sotto le ali. Dai motori usciva un po' di fumo. Molti credettero che gli aerei fossero stati colpiti; invece erano le vampe delle mitragliere di bordo che sparavano sulla massa nera che oscillava nella piana.
Mentre si combatteva sotto il tiro degli anticarro e delle mitragliere russe cercando di superare il terrapieno, il generale Nasci ordinò di gettare in avanti tutto il peso della sterminata colonna degli sbandati. Migliaia di uomini, in uno spaventoso groviglio di slitte e muli, rotolarono urlando verso il trincerone della ferrovia. Alla testa erano i generali Reverberi e Giulio Martinat, capo di Stato Maggiore del Corpo d'Armata Alpino. Con loro erano i capitani Giovan Battista Stucchi e Giuseppe Novello e altri ufficiali della "Tridentina".
Martinat cadde tra i primi mentre portava gli uomini all'assalto. Aveva 52 anni. Un artigliere alpino del gruppo "Bergamo", Sandro Goglio, che oggi abita a Cuneo, ricorda che mentre correva verso Nikolajewka vide il generale Martinat steso sulla neve, con il braccio destro puntato in avanti verso la città . Morì anche il tenente Giovanni Piatti, di 33 anni, di Como, della 48^, l'unico comandante di compagnia del "Tirano" uscito incolume da Arnautowo. Caddero centinaia e centinaia di alpini. Soltanto il 5° ebbe 576 fra morti e dispersi, e 414 feriti o congelati.
Verso le 18, l'enorme colonna, superato convulsamente il trincerone della ferrovia, travolse la linea di resistenza sovietica e si gettò verso le isbe ancora difese da centri di fuoco nemici. Non si sapeva dove alloggiare le centinaia di feriti, perché tutte le case erano invase dagli sbandati oppure occupate dai soldati russi. Anche per i sovietici, sopraffatti dalla massa enorme di italiani piombata sulla città , esisteva il problema della sopravvivenza. Anche loro erano provati dai combattimenti, con molti feriti, paralizzati come noi dalla temperatura a 30° sottozero.
In questo ambiente, in certi settori della città si stabilì quasi una tregua forzata. Lo scrittore Mario Rigoni Stern, allora sergente maggiore della 55^ del "Vestone", entrò in un'isba occupata da soldati russi. Aveva fame. Una donna gli porse un piatto di latte e miglio. Rigoni Stern mangiò sotto lo sguardo dei sovietici, poi ringraziò e uscì.
Alle due di notte del 27 gennaio, con un grido che rimbalzò da un'isba all'altra, arrivò l'ordine di lasciare Nikolajewka. Riprendeva la ritirata verso ovest, verso la salvezza. A noi ufficiali toccò il compito più straziante: scegliere tra i feriti quelli da portare con noi, i meno gravi, per i quali v'era qualche speranza di salvezza. Gli altri, colpiti all'addome o al torace, dovevano essere abbandonati.
Nel buio la disperazione aumentò. I nostri compagni urlavano, non volevano essere abbandonati. Qualcuno, strisciando nella neve, arrivava fino alle slitte e si aggrappava, implorando, piangendo. Così fece uno dei migliori della 46^, l'alpino Rinaldo Tironi, di 30 anni, valtellinese. "Tenente, tenente" mi gridò. "Sono Tironi, non mi riconosce? Non mi abbandoni!". Lo lasciammo nel freddo. Era una legge bestiale alla quale non potevamo sottrarci.
Il nostro comandante di compagnia, tenente Grandi, morì poco prima dell'alba, appena fuori l'abitato di Nikolajewka, dopo un'agonia senza lamenti. Il suo cadavere rimase sulla slitta sino al mattino del 28, quando lo seppellimmo sotto un palmo di neve.
Lo sbarramento principale era stato superato. Camminammo ancora per cinque giorni e cinque notti, nel freddo polare e nella tormenta, incontrando diversi centri di resistenza nemici, sotto i continui attacchi della caccia sovietica. I piloti russi volavano indisturbati: mai, dall'inizio della ritirata, era comparso anche un solo aereo italiano, neppure per cercarci. In testa continuò a marciare la "Tridentina" , seguita dalla colonna ininterrotta degli sbandati che si allungava nella steppa per una profondità di circa 30 chilometri.
Il 31 gennaio, presso Wosnessenoeka, trovammo pochissime ambulanze con il generale Gariboldi, comandante dell'Armir. Caricammo sui veicoli i feriti più gravi. C'era anche un alpino con un braccio amputato ad Arnautowo che si era trascinato per sei giorni con il moncone congelato. Il freddo lo aveva salvato dalla cancrena. C'erano pure alcuni tedeschi, in tuta bianca. Ne fermai uno e gli chiesi se voleva darmi la sua pistolmachine per un pacchetto di sigarette. Accettò. Ormai l'arma non gli serviva più.
Come straccioni, passammo davanti al generale Gariboldi, curvi, a gruppetti, con le coperte sulla testa. Ci guardò. Sfilavano i resti della sua armata. Con noi c'era anche suo figlio, sottotenente del 5° Alpini.
Percorremmo altri 700 chilometri a piedi, sempre incalzati dai russi che stavano avanzando. Il 1° marzo raggiungemmo Gomel. Diciassette giorni dopo eravamo in Italia. La nostra tragedia era finita. Per andare in Russia, nell'estate del 1942 erano state necessarie duecento lunghe tradotte; per ritornare in patria, nella primavera del 1943, bastarono 17 brevi convogli ferroviari.
Nikolajewka fu una grande vittoria, la vittoria della disperazione. La battaglia venne combattuta e vinta dalla "Tridentina", ma anche la "Cuneense", la "Julia" e la "Vicenza" contribuirono con il loro sacrificio alla salvezza del grosso del Corpo d'Armata Alpino. Pur operando in posizioni di fiancheggiamento e di retroguardia, queste tre unità impegnarono ingenti forze sovietiche alleggerendo in questo modo la pressione sulla divisione di Reverberi. Il 27 gennaio, i resti della "Cuneense", ormai all'estremo limite della resistenza umana, furono circondati e catturati a Valuiki.
I superstiti del Corpo d'Armata Alpino, tornati in Italia, raccontarono la loro esperienza. Parlavano con entusiasmo della popolazione ucraina e con odio degli "alleati" tedeschi. Citiamo da una relazione dell'Ufficio storico dello Stato Maggiore dell'Esercito Italiano:
"La popolazione ucraina - per pietà , simpatia o per ordine ricevuto dalle autorità russe - fu sollecita nell'alleviare sofferenze, offrì da mangiare, vestiree possibilità di riposo ai soldati dell'Armir".
Come si comportarono i tedeschi? Dice la stessa relazione: "Dalle isbe, a mano armata, venivano cacciati i nostri soldati per far posto a quelli tedeschi; nostri autieri, a mano armata, venivano obbligati a cedere l'automezzo; dai nostri autocarri venivano fatti discendere nostri soldati, anche feriti, per far posto a soldati tedeschi; dai tren carichi di nostri feriti venivano sganciate le locomotive per essere agganciate a convogli tedeschi; feriti e congelati italiani venivano caricati sui pianali dove alcuni per il freddo morivano durante il tragitto, mentre nelle vetture coperte prendevano posto militari tedeschi, non feriti, che, avioriforniti, mangiavano e fumavano allegramente quando i nostri soldati erano digiuni da parecchi giorni. Durante il ripiegamento, i tedeschi, su autocarri o su treni, schernivano, deridevano e dispregiavano i nostri soldati che si trascinavano a piedi nelle misere condizioni che abbiamo descritte; e quando qualcuno tentava di salire sugli autocarri o sui treni, spesso semivuoti, veniva inesorabilmente colpito col calcio del fucile e costretto a rimanere a terra".
Ricordo che il 30 gennaio, appena fuori dalla sacca, i tedeschi delle retrovie si divertivano a fotografarci. Era quasi come se il nostro disastro fosse una loro vittoria e ci segnavano a dito con disprezzo. Il 9 marzo, a Slobin, il maggiore Gerardo Zaccardo adunò il Battaglione "Tirano" e ci parlò della tragedia e della ritirata:
"È un insulto per i nostri morti parlare ancora di alleanza con i tedeschi: dopo la ritirata, i tedeschi sono nostri nemici, più che nella guerra del 1915".
Il messaggio dei superstiti fu la condanna dell'assurda politica di guerra del fascismo. Questo spiega perché le popolazioni delle valli che avevano visto morire i loro figli in Russia si schierarono subito, d'istinto, con la Resistenza. Così avvenne nelle vallate di Como, dove bruciante era il ricordo dei quattordicimila caduti e dispersi della "Cuneense". I partigiani lottarono contro i nazi-fascisti anche per conto dei fratelli, dei figli, degli amici che erano morti in Russia.
Ieri mi trovavo nella sede A.N.A. di Ronchi dei Legionari.
Ogni volta che ci vado l'attenzione si rivolge sempre agli innumerevoli gagliardetti provenienti da tutte le parti d'Italia, nonchè ai numerosi cimeli storici, dipinti e fotografie raffiguranti le imprese degli Alpini di ieri e di oggi.
Non poteva mancare Nikolajewka.
Un quadro dipinto a colori: la massicciata ferroviaria ed un sottopasso colmi di caduti Italiani, oltre la ferrovia la città , con le case e la chiesa dilaniate dalle esplosioni della battaglia. In primo piano un gruppo di Alpini: un ferito accovacciato, uno di lato che impugna il fucile ed indossa l'elmetto con la penna, un altro con in testa un colbacco bianco che alza al cielo il proprio moschetto incitando i commilitoni.
Sotto la rappresentazione una breve didascalia cita la prima feroce fase dello scontro, che sotto l'iniziale impeto degli Alpini sembra arrestarsi dopo innumerevoli perdite, fra lo sgomento della massa che segue i combattenti. Poi una voce, un urlo che irrompe nella steppa gelata, la voce del generale Reverberi 'Alpini! Oltre la ferrovia c'è l'Italia! Tridentina avanti!'
Stefano
_____________________________
«Oltre la morte, Fanteria d'Arresto»
Nel gennaio del 1946 - a tre anni dal tragico epilogo della Campagna di Russia - alcuni reduci della Tridentina, per nulla intimoriti dal clima politico di quel tempo, si ritrovarono in una bettola di Brescia città : per ricordare.
A sessantasei anni dall'evento, un esiguo gruppo di superstiti di quell'epica ritirata, vittoriosa sull'apparente forza delle armi, insieme a tanti che di guerra hanno soltanto letto o sentito raccontare, si sono riuniti ancora nel piazzale della “Nikolajewka”, scuola-monumento costruita dagli alpini bresciani per dare un tetto e “far rivivere” spastici e tetraplegici: per non dimenticare coloro che, nella disperazione, hanno cercato e colto l'ultimo sussulto d'amore, aggrappati con gli occhi, non solo dell'anima, alla baita lontana che - in questo modo - almeno alcuni commilitoni avrebbero potuto rivedere.
Il contesto politico è cambiato; il freddo meteorologico è soltanto all'esterno, mentre il ten. col. Dmitry Stolyarov, addetto militare aggiunto presso l'Ambasciata della Federazione Russa in Roma, sorpreso dalle note dell'inno della “sua” Patria, magistralmente eseguito dalla fanfara Tridentina della sezione ospitante, saluta impettito, le bandiere italiana e russa salgono insieme, unite in un abbraccio emotivamente evidente, caldo e amichevole, sul pennone che domina cappelli alpini ed autorità , ammirati e consapevoli tutti di partecipare a momenti di intima e generale solennità .
Il presidente Perona, dopo il suo breve saluto, abbraccia i reduci uno per uno, mentre il magg. Giobatta Danda, della 54ª compagnia del btg. Vestone rievoca - non senza un ancor vivo ed inquietante smarrimento - i momenti dolorosi che coinvolsero anche le Divisioni sorelle Julia, Cuneense e Vicenza (Divisione di fanteria di supporto al comando del C.A.A.).
Al mattino, nelle scuole medie Tridentina e Pascoli, ragazzi e professori - informati e preparati - hanno manifestato quella che dovrebbe essere la loro naturale predisposizione ad accogliere ed approfondire tappe esaltanti che hanno fatto del sacrificio il valore fondante della nostra quotidianità nazionale. Al cimitero, opera del Vantini, il comandante delle Truppe alpine gen. D. Bruno Petti che, con Perona e gli altri consiglieri scortava il Labaro, il gen. Rossi, comandante della Julia, accompagnato dal col. Linda, il col. Simone Pietro Giannuzzi comandante del 5° reggimento alpini e il col. Dario Buffa comandante del 2° reggimento artiglieria da montagna rappresentavano le realtà alpine alle armi, durante la cerimonia della resa degli onori ai Caduti, tributata anche dalle autorità cittadine, fra cui il vicesindaco Rolfi, nonché da numerosi alpini con vessilli e gagliardetti.
A sera, lo spirito di chi a baita non è tornato, si aggirava in città cercando la sofferta stretta degli amici. Nelson Cenci e Carlo Vicentini, nell'auditorium San Barnaba, davano la voce a padre Brevi e a don Gnocchi - che auspichiamo di veder presto assurgere agli onori degli altari - indiscussi capi spirituali dei cappellani che hanno trasfigurato il volto di tanti alpini in quello unico del Cristo.
In Duomo, mons. Vigilio Olmi, vescovo ausiliare emerito della città , indicava ai presenti - fra cui il sindaco Adriano Paroli, il vice presidente della Provincia Aristide Peli, il comandante dei Carabinieri col. Galletta, il questore Montemagno - le vie giuste, brevi e lunghe, che hanno sublimato il sacrificio dei giovani della nostra gente in quella lontana terra di Russia.
Il coro Alte Cime della Sezione chiudeva con il capolavoro di De Marzi: le “Voci di Nikolajewka”.
Penso anch'io che sia meglio così.
Il ricordo solo di chi sente qualcosa, di chi ha servito nei Reggimenti dalle Bandiere coperte del metallo sublimato dal sangue, dove si ascoltavano i sottotenenti di complemento ricordare fatti ormai lontani. Magari senza la precisione degli storici e la retorica da palco delle autorità , ma con forza che veniva dal cuore.
Reggimenti magari nel frattempo disciolti, che a me è sempre sembrato ammazzare un'altra volta quei ragazzi.
Pazienza.
Come ogni gennaio, il Capitano Grandi è tornato a cantare.
Mandi.
Luigi
"Gli Alpini arrivano a piedi là dove giunge soltanto la fede alata"
(G. Bedeschi)
certo che come al solito si ricordano solo chi si vuol ricordare............e le camice nere della 3 gennaio, il raggruppamento a cavallo, la divisione Celere P.A.D.A. la df. Torino, Pasubio, ravenna, ecc. . Mi si dirà ma che c'entrano con Nikolaiewka? niente, perche seguirono altre vie nella ritirata, però raramente nelle commemorazioni sulla disastrosa campagna sento nominare tali unità , pare, e questo lo dico con rammarico, che in Russia ci fosse solo il Corpo d'armata alpino!
La Max Trid.
EX Gran Maestro delle Fortificazioni
(riciclato NATO)
Memento Audere Semper
Hai pienamente ragione Andrea, quei nostri soldati e Caduti sono dimenticati e probabilmente la loro tragedia fu ancora maggiore di quella del Corpo d'Armata Alpino.
Pochi magari sanno del "vallone della morte" di Arbusow, purtroppo di quell'inferno ci sono poche memorie e scritti, ricordo a tutti comunque "I più non ritornano" di Eugenio Corti, Tenente del 9° raggruppamento artiglieria.
Un diario intenso quanto emozionante e commovente.
In effetti sarebbe da rispolverare un pochino l'aspetto della ritirata in Russia. Purtroppo altri caduti non sono stati ricordati così tanto perchè mancano forse delle associazioni del peso e dell'influenza dell'ANA per altri corpi/specialità .
Anche anniversari come questo sarebbero nel dimenticatoio senza lo spirito di corpo degli Alpini, esattamente come molti altri anniversari.
Lo spirito di corpo e il cameratismo non son cose che si possono comprare in farmacia con la ricetta del medico.
Io ricordo i Caduti con la penna d'aquila non perchè siano migliori degli altri, ma perchè li sento miei oltre ogni dire.
Ho servito in una Batteria che in Russia ebbe due Medaglie d'oro individuali, una delle quali guadagnata in un episodio che - se avvenuto in ranghi inglesi o statunitensi - avrebbe meritato libri e celluloide a quintali.
Il comandante di batteria che serve un pezzo di un'altra unità , insieme ad uno dei suoi capipezzo rimastone privo e ad un deutsche soldat come servente alle code, fin quando un carro sovietico non fece un unico ammasso di acciaio e carne.
Figurarsi.
E ho citato il germanico anche per ricalibrare le parole di Revelli.
Quand'ero piccolo (di età ) leggevo ammirato della Folgore e dei sommergibilisti, dei Fanti del Carso e dei Lupi di Toscana.
Ma servire, è inutile il dirlo, cambia la prospettiva.
Portare le mostrine giallo-verdi fa, o faceva, entrare in una famiglia.
I suoi morti non sono migliori di quelle delle altre.
Ma sono i tuoi.
Il caso (un po' aiutato, per la verità ) ha voluto che fossero gli alpini la mia gente.
Non posso impormi di sentire i bersaglieri o i carristi come tali, perchè sarei ipocrita. Li onoro come soldati italiani, ma non è la stessa cosa.
Sarò limitato io.
Se comunque si voleva ricordare il sacrificio delle altre unità dell'ARM.I.R, bastava aprire una discussione quaranta giorni fa.
Mandi.
Luigi
"Gli Alpini arrivano a piedi là dove giunge soltanto la fede alata"
(G. Bedeschi)
non era mia intenzione sminuire l'eroismo del Corpo d'Armata Alpino, ma solo mettere in evidenza, visto che pochi lo fanno, anche quanto hanno fatto le altre unità dell'ARMIR, pertanto ho colto l'occasione della ricorrenza, probabilmente ho sbagliato argomento . Premesso cio vorrei dire a Luigi, se ho letto giusto che anche mio mio figlio ha militato nella 13^ btr del Conegliano, e di cio ne sono giustamente fiero, come sono orgoglioso di aver servito fra le file del Val Cismon che fu praticamente annientato dell'infausta campagna militare.
Quello che mi irrita è che nelle commemorazioni ufficiali, poche e tutte di matrice alpina, non vengono mai menzionate le altre unità , come che se detta campagna fosse stata fatta solo dalle truppe alpine, alle quale non voglio togliere nulla. Questo scritto da un italiano medio mona che ha servito per oltre un trentennio la Patria negli alpini.
La Max Trid.
EX Gran Maestro delle Fortificazioni
(riciclato NATO)
Memento Audere Semper
Condivido Cavalli per quanto concerne le manifestazioni ufficiali per ricordare i Caduti di Russia. E' vero anche che se si commemora Nikolajewka, sono gli alpini in massima parte a farla da protagonisti.
Concordo, però anche con Luigi (cavolo, come sono bipartisan!): i morti degli "altri" (possiamo metterci anche i caduti di nemici e alleati) mi addolorano ma per i "miei" piango. E, se ad organizzare le commemorazioni è l'ANA, trovo anche giusto che vengano ricordati in primis gli alpini (ciò non toglie che sarebbe di buon gusto menzionare tutti).
Aggiungo che giusto ieri ho finito di leggere "Varvarovka alzo zero" di Ottobono Terzi, sottotenente delle "Voloire" (artiglieria a cavallo) in Russia, giusto per avere un altro punto di vista che non sia sempre di reduci alpini e vi consiglio anche "Un fante sul Don" diario di Luigi Scarpel, fante della Cosseria, che potete scaricare anche qui: http://www.geocities.com/athens/acropol ... morie.html e del quale riporto un passo:<<...Anche questo viaggio, sono circa 250 chilometri, lo dobbiamo fare, stando alla terminologia militare, per via ordinaria che vuol dire a piedi. Cosi riprendiamo il cammino io, Borsa e Buratto un po' in treno e un po' a piedi, fino al centro di raccolta di Gomel.
Qui sono arrivati anche gli alpini. Li vado a trovare perché può darsi che ci sia qualcuno di Cornuda. Non ne trovo, ma quello che sento raccontare sembra uscito dalla mente di un pazzo. Non riesco a credere che sia vero.
Per la prima volta sento parlare della tragedia del Corpo d'Armata Alpino, di due settimane nella neve, nella tormenta, senza cibo, dormendo dove potevano e spesso all'aperto, camminando senza sosta, combattendo ogni giorno per sfondare e superare i continui sbarramenti che forti colonne motorizzate russe riuscivano a frapporre sulla loro strada.
Per la prima volta sento parlare di Postojaly; e Sceljakino dove quanto rimaneva della "Julia" dovette soccombere, di Varvarovka e di Valujki dove anche i resti della "Cuneense" e della "Vicenza" furono fatti prigionieri, e di Nikolajevka dove il sacrificio e il coraggio degli ultimi reparti efficienti della "Tridentina" e una massa disperata di 20-25.000 straccioni "sbandatà" e quasi morti di fame e di freddo che li seguivano riuscirono, con la forza della disperazione, a rompere l'ultimo accerchiamento russo e ad aprirsi un varco verso la salvezza.
Ho sentito parlare di migliaia e migliaia di soldati che non ce l'hanno fatta, morti combattendo, morti di inedia e di fame, morti assiderati ai bordi delle piste dove si fermavano "per riposare un po'".>>
cavalli ha scritto:certo che come al solito si ricordano solo chi si vuol ricordare............e le camice nere della 3 gennaio, il raggruppamento a cavallo, la divisione Celere P.A.D.A. la df. Torino, Pasubio, ravenna, ecc. . Mi si dirà ma che c'entrano con Nikolaiewka? niente, perche seguirono altre vie nella ritirata, però raramente nelle commemorazioni sulla disastrosa campagna sento nominare tali unità , pare, e questo lo dico con rammarico, che in Russia ci fosse solo il Corpo d'armata alpino!
hai pienamente ragione anche se, se mi posso permettere, nn vengono ricordati nemmeno i caduti di prigionia, si parla tanto die Morti in Battaglia, giustissimo, per carità , ma nn si ricordà quasi mai Quelli che hanno sofferto le pene dei Gulag Russi, come nn vengono nemmeno ricordati con il dovuto rispetto i Morti delle Foibe in Jugoslavia, o dei morti dei Gulag in Corea.
Non si parla, nn si ricorda di molte cose, perchè, a quanto mi hanno insegnato che posso aver capito male io, possibilissimo, ma la Storia la fanno i Vincitori, è per questo che solo molto tempo dopo si è potuto parlare dei Gulag e delle Foibe
E questo nn è giusto
cavalli ha scritto:certo che come al solito si ricordano solo chi si vuol ricordare............e le camice nere della 3 gennaio, il raggruppamento a cavallo, la divisione Celere P.A.D.A. la df. Torino, Pasubio, ravenna, ecc. . Mi si dirà ma che c'entrano con Nikolaiewka? niente, perche seguirono altre vie nella ritirata, però raramente nelle commemorazioni sulla disastrosa campagna sento nominare tali unità , pare, e questo lo dico con rammarico, che in Russia ci fosse solo il Corpo d'armata alpino!
hai pienamente ragione anche se, se mi posso permettere, nn vengono ricordati nemmeno i caduti di prigionia, si parla tanto die Morti in Battaglia, giustissimo, per carità , ma nn si ricordà quasi mai Quelli che hanno sofferto le pene dei Gulag Russi, come nn vengono nemmeno ricordati con il dovuto rispetto i Morti delle Foibe in Jugoslavia, o dei morti dei Gulag in Corea.
Non si parla, nn si ricorda di molte cose, perchè, a quanto mi hanno insegnato che posso aver capito male io, possibilissimo, ma la Storia la fanno i Vincitori, è per questo che solo molto tempo dopo si è potuto parlare dei Gulag e delle Foibe
E questo nn è giusto
cavalli ha scritto:certo che come al solito si ricordano solo chi si vuol ricordare............e le camice nere della 3 gennaio, il raggruppamento a cavallo, la divisione Celere P.A.D.A. la df. Torino, Pasubio, ravenna, ecc. . Mi si dirà ma che c'entrano con Nikolaiewka? niente, perche seguirono altre vie nella ritirata, però raramente nelle commemorazioni sulla disastrosa campagna sento nominare tali unità , pare, e questo lo dico con rammarico, che in Russia ci fosse solo il Corpo d'armata alpino!
hai pienamente ragione anche se, se mi posso permettere, nn vengono ricordati nemmeno i caduti di prigionia, si parla tanto die Morti in Battaglia, giustissimo, per carità , ma nn si ricordà quasi mai Quelli che hanno sofferto le pene dei Gulag Russi, come nn vengono nemmeno ricordati con il dovuto rispetto i Morti delle Foibe in Jugoslavia, o dei morti dei Gulag in Corea.
Non si parla, nn si ricorda di molte cose, perchè, a quanto mi hanno insegnato che posso aver capito male io, possibilissimo, ma la Storia la fanno i Vincitori, è per questo che solo molto tempo dopo si è potuto parlare dei Gulag e delle Foibe
E questo nn è giusto