Dal Corriere della Sera di ieri:
Prima missione «combat» per gli alpini nelle gole afghane.
Duecento militari hanno partecipato all' azione, durata tre giorni
L' ALTRO FRONTE
di Giuliano Gallo
DAL NOSTRO INVIATO KABUL - Il Black Hawk vola basso, sfiorando con le pale le pareti della gola. A prua, accanto alla bandiera americana, c' è anche un tricolore: gli alpini italiani volano verso la loro prima vera missione «combat», il primo avio-assalto nella storia del nostro esercito. Vuol dire soldati che gli elicotteri scaraventano in una zona ostile, mortai pesanti da 120 millimetri agganciati sotto la fusoliera dei grossi chinook, razioni da combattimento e notti all' addiaccio, a tremila metri d' altezza. Non è stato sparato nemmeno un colpo, nemmeno uno dei «miliziani anti coalizione», come li chiamano con sommario eufemismo gli americani, si è mai avvicinato a portata di tiro. Eppure quella iniziata il 1° maggio nella valle di Bermel, lungo il confine con il Pakistan, era la cosa più simile alla guerra che i nostri soldati potessero intraprendere. Gli elicotteri, sedici in tutto, hanno fatto la spola per ore fra la base di Khost e la vallata stretta fra le montagne, trasportando duecento alpini e altrettanti paracadutisti americani. Nelle stesse ore, una colonna di ventidue mezzi italiani s' inerpicava a fatica lungo le terribili gole, 400 chilometri percorsi con il pericolo costante di precipitare. Nove ore per un viaggio irto di pericoli. In alto volavano elicotteri Apache, caccia F16 e le cannoniere volanti, gli A10. La valle di Bermel, avevano sentenziato gli esploratori americani nei giorni precedenti, è uno dei passaggi prediletti dalle bande che si spostano di continuo fra Afghanistan e Pakistan. Sono avanzi di Al Qaeda, qualche talebano irriducibile e soprattutto molti mujaheddin di Gulbuddin Hekmatyar, ex signore della guerra, eroe della resistenza ai sovietici e oggi ultimo nemico della coalizione multinazionale, contro la quale ha proclamato una sua personale jihad, una guerra santa. Dopo lo sbarco le truppe hanno battuto per tre giorni i miseri villaggi sparsi lungo la valle: poche case di fango, dove nessuno mai aveva visto prima soldati occidentali. Cinquanta chilometri quadrati di sassi, fango e desolazioni, chilometri a piedi con le armi sempre pronte. La gente usciva dalle case sorridendo, nessuno sembrava nascondere segreti. I capi villaggio offrivano tazze da tè e strette di mano, i bambini spiavano curiosi quegli strani uomini corrazzati. Alpini e americani hanno controllato in tre giorni 253 persone, ispezionato decine di improbabili abitazioni, con i cani cercamine che vagavano fra i vicoli in cerca di esplosivi. Giorgio Battisti, il generale che comanda il contingente italiano in Afghanistan, non nasconde la soddisfazione: pochi giorni prima che i «suoi» alpini lascino il Paese, è toccato proprio a loro l' onore del primo avio-assalto della storia patria. Ai profani potrà dire poco, ma per chi veste la divisa è come una medaglia al valore. Ma è soprattutto l' atteggiamento degli americani nei confronti dei nostri soldati a far sorridere di piacere Battisti: «Abbiamo dimostrato di saper operare senza problemi con loro, anche al di fuori delle procedure Nato. Certo, ci riservano un trattamento di favore anche perché l' Italia ha fornito mille uomini sul terreno». Il generale sa che parlate di «combat», un gradino appena più in basso di «guerra» potrebbe suscitare polemiche in Italia. E allora cita una frase del presidente della Repubblica, pronunciata a febbraio nel saluto alla task force «Nibbio» in partenza per l' Afghanistan: «La pace va difesa strenuamente, anche con le armi», aveva detto Carlo Azeglio Ciampi. Ed è proprio quello che i soldati stanno facendo qui. Sopportando il caldo e il freddo, la polvere e la sporcizia, i missili che piovono sulla loro base e l' infinita tensione dei pattugliamenti.