La disciplina delle armi ci è stata scuola, perché tutti sappiamo che in ogni settore dell'attività umana la disciplina è la virtù civile degli uomini liberi. Solo chi ha l'animo del servo la sente come una catena, la rifiuta come una costrizione. (V. Peduzzi)
Oggi, cari amici, non è per me il giorno delle recriminazioni e delle discussioni.
Come succede quando finiscono i grandi libri, i grandi film ed i grandi amori, questo è il giorno dei bilanci e dei saluti, dei ricordi e dei rimpianti.
Scrisse una volta Leonardo, alpino di razza se mai ce ne sono stati, che “i nostri morti vivono e comandano”.
Almeno per me e, penso, per molti di voi.
Perciò il mio primo ricordo è per loro, per quel milione di ragazzi che si sono trovati a pagare con il sacrificio della vita quella che qualcuno ha definito “una tassa in natura”. Che hanno versato il loro sangue in posti che oggi sono solo sui libri di storia, ma che quel giorno erano l'inferno in terra.
Credo che altre parole sarebbero di troppo.
Per loro, idealmente, una stella alpina ed una preghiera sulla tomba che molti neppure hanno avuto.
Ed appresso vengono centotrenta anni di militari di leva della mia famiglia.
Perché ogni uomo che potesse reggere il fucile non si è mai tirato indietro, in pace come in guerra.
Bestemmiando, piangendo o pregando secondo le proprie inclinazioni, tutti hanno risposto “presente” finché difendere la Patria è rimasto un dovere e non una cosa che si fa se si vuole.
E qualcuno ha portato fino alla morte nella carne e nell'animo i morsi del dovere compiuto.
Ad essi la promessa che la memoria dei loro sacrifici non sarà perduta.
E mi piacerebbe, un giorno, che un novello Paolo Caccia Dominioni ne facesse uno dei suoi bellissimi disegni, tutti insieme nelle rispettive uniformi, bersaglieri umbertini e fanti della Grande Guerra, artiglieri e cavalieri, alpini ed autieri... ma non si trova più il metallo umano per temprare un nuovo PCD, temo.
Poi ci sono i soldati della mia infanzia. Quelli degli anni '80, con il FAL e le buffetterie di canapa e la SCBT verde oliva ed il fazzoletto di specialità , i tanto denigrati “najoni” che però hanno permesso che io potessi crescere felice. Perché, citando Tom Cruise in “Codice d'Onore”, c'erano loro sul muro con il fucile, ed io potevo dormire tranquillo.
A loro, ed a tutti i militari di leva che per quarant'anni hanno vegliato su quel muro, al quale il nemico stava davanti, dietro ed intorno, il mio personalissimo “grazie”. Un “grazie” che diventa commosso pensando ai loro commilitoni che a vent'anni non son più tornati a casa anche se ufficialmente non c'era una guerra.
E questo mi fa tornare alla memoria che anch'io, un giorno, fui militare di leva.
E pure se parrà forse strano, non posso che ringraziare il Ministero della Difesa e l'Esercito Italiano perché mi hanno concesso di diventare un artigliere del 3° da Montagna, di quel Reggimento di cui avevo il nome nel cuore da quando, quindicenne, avevo per caso (per caso!) letto “Centomila gavette di ghiaccio”.
Il Reggimento dove una volta erano “gli uomini della leggenda”.
E questo detto tutto è di più.
Un abbraccio poi a quello sconosciuto bocia del 3° che un giorno, inquadrato in un picchetto in attesa di presenziare ad un giuramento, mi ghiacciò la schiena di immeritato orgoglio dicendo ai suoi commilitoni, nel vedermi il fregio sul Cappello, “Questo è uno dei nostri”.
Ed un abbraccio a tutti i miei fra' per i giorni vissuti assieme e la dolcezza che ne accompagna il ricordo, ed ai miei anziani per l'esempio fornito, ed ai miei ufficiali e sottufficiali per quanto mi hanno insegnato (ce ne fossero così, nella vita, di “giorni sprecati”!).
Ed a lei, al “simbolo dell'onore dell'unità stessa nonché delle sue tradizioni, della sua storia, del ricordo dei suoi caduti”, alla Bandiera di Guerra del 3° da Montagna, un saluto alla tesa come ai bei tempi, mano a penna e braccio teso, un saluto di quelli che adesso non si vedranno più.
E loro, i “fratelli maggiori”, i ragazzi che sul velcro portavano la stella dorata, e prima anche il baffo da sergente?
Gli ufficiali e sottufficiali di complemento, stretti fra la supponenza di qualche “effettivo” e la poca considerazione di qualche militare di truppa, gli eredi di quella generazione che nel 1915, falciati gli ufficiali d'Accademia, aveva preso in mano il Regio Esercito.
I più dimenticati e sprezzati dei già dimenticati e sprezzati militari di leva.
Quelli che a più d'uno fecero capire, con la loro umana severità , che forse la naja non era quella fine del mondo che qualcuno voleva far credere. Che avevano sempre un consiglio, che non si stancavano mai di correggere e ripetere ed incoraggiare. E che quasi sempre hanno lasciato il reparto migliore di come l'avessero trovato.
Anche a loro, un saluto fatto come Cantore comanda. Ed un abbraccio fraterno.
Siamo ormai alla fine, amici, e devo confessare che tutti questi ricordi fanno nascere in me un piccolo rimpianto colmo di malinconia.
Perché non ci saranno più “classi di ferro” e visite dei “tre giorni” e cartoline precetto e rientri affannati dalla licenza e quell'odore di magazzino ad ogni scaglione rivestito e giuramenti pubblici di fronte a ragazze trepidanti e l'emozione del primo poligono ed i piantoni alle camerate e la coda per l'afflusso mensa e le lacrime che non riescono ad uscire il giorno del congedo e le reclute che partivano ragazzi e tornavano uomini e quelle foto ormai sbiadite uscite per caso da un angolo dopo quarant'anni... “Gesù, la mia giovinezza...”
È la morte di un mondo.
E se qualcuno non condivide quanto ho scritto, o si è addormentato nel leggerlo, o non l'ha letto proprio, non me ne voglia, perché erano cose che ci tenevo a dire. E spero che un giorno qualcuno le metta giù meglio di me e ne faccia un libro, per non dimenticare.
Ma prima che tutto finisca, vi voglio raccontare come avrei voluto l'ultimo due giugno della leva.
Perché mi sarebbe piaciuto che per un giorno, uno solo, tutte le Bandiere che sono ora chiuse al Vittoriano vedessero di nuovo il sole, e si unissero a quelle dei reparti ancora in vita, e sfilassero tutte assieme, nel ricordo dei ragazzi che in 145 anni sotto di loro hanno servito l'Italia con fedeltà e onore.
Ed anche se così non è stato, nessuno vieta di sognare come sarebbe andata una cosa del genere.
Anzi, di farla ancora più bella della realtà , come se fossimo in una delle poesie disegnate da Hugo Pratt: perché nel sogno le Bandiere non sono sole, ma le seguono i quadrati immensi di quei ragazzi, ognuno dietro la sua insegna, vivi e morti uniti dal dovere compiuto.
E ci sono così gli alpini caduti in riga ed i montagnini abbracciati all'acciaio dei pezzi di Adua, ed i giovani marinai e bersaglieri di Libia, e la moltitudine sterminata e sacra dei fanti del Carso, elmo Adrian e grigioverde e '91 a spall'arm, e le mille lance di Pozzuolo del Friuli, e spavaldi come il loro cappello gli alpini della Marmolada e dell'Adamello e delle Tofane e dell'Ortigara, e le piume ed i solini dei ragazzi che il 3 novembre del 1918 primi ricevettero l'abbraccio delle ragazze di Trieste. E poi quelli che andarono sotto le armi nel '34 o nel '35, ed ebbero il congedo solo dieci anni dopo, se prima non rimasero con le scarpe al sole in Etiopia, o in Spagna, o in Francia, o in Libia, o in Grecia, o in Russia. Ma anche loro sono qui oggi, e gli ultimi ad arrivare, un poco a fatica, sono proprio i nostri della steppa, che strascinano i piedi divorati dal gelo od avvolti in un pezzo di coperta. Ma arrivano anch'essi, e si inquadrano a fianco dei ragazzi dell'Ariete e della Trieste, della Folgore e della Brescia, degli equipaggi dei sommergibili che non tornarono alla base, dei piloti che affrontarono il nemico uno contro dieci... come si fa a citarli tutti? Ci sono perfino i dimenticati delle unità che combatterono nella guerra civile, e che prima di raggiungere il proprio posto scambiano un saluto con quelli che neppure hanno il piccolo orgoglio di poter dire di aver portato le stellette, ma che furono gli ultimi a vestire il grigioverde. E poi ci siamo noi, con il volto sereno di chi ha servito in pace e non sa cosa sia la guerra, anche se abbiamo vicino i morti di Kindu e del Pastificio, del terrorismo sudtirolese e del semplice addestramento.
Ecco, ora ci siamo tutti.
Per l'ultimo congedo.
Qualcuno dà l'attenti.
Iniziano a salire le note di una tromba.
Silenzio fuori ordinanza.
Sipario.