Spero che Ax sia d'accordo se ripropongo anche qui, dato l'interesse, questo argomento che ho aperto anche su un altro forum.
Il "Corriere" odierno dedica un'intera pagina al progetto di "riunificazione" fra Gorizia e Nova Gorica con l'abbattimento del "muro" che divide la città dal 1947, simbolo del quale è la ringhiera (una volta filo spinato) che divide in due il piazzale della Transalpina.
http://www.corriere.it/edicola/index.js ... c=GORIZIaa
Per me quel "muro", ancor più di quello più famoso di Berlino, ha rappresentato da sempre il segno concreto della divisione del mondo in due blocchi ..................
Anni '60
E' sera, l'automobile percorre la via del S.Gabriele, all'imbocco della piazza si arresta, qualche decina di metri più avanti la piazza è tagliata in due da una rete sormontata da reticolati, ogni tanto appeso un cartello bilingue "confine provvisorio italo-jugoslavo". Dall'automobile scende un uomo con la divisa del nostro Esercito, mio padre, e due bambini, io e mio fratello, ci avviciniamo alla rete, di là s'erge un imponente grigio edificio, la stazione ferroviaria di Monte Santo, la "vecchia" stazione di Gorizia: non c'è più il tricolore, sul tetto dell'edificio svetta una gigantesa stella rossa, dietro l'edificio si vede e si sente lo sbuffare delle locomotive a vapore.
Quella Gorizia che vedo attraverso la rete non è più Italia!
Anni '90
E' giorno, l'automobile percorre la via del S.Gabriele, all'imbocco della piazza si arresta, qualche decina di metri più avanti la piazza è tagliata in due da una ringhiera, sembra quella di un condominio, non ci sono più i cartelli bilingue "confine provvisorio italo-jugoslavo". Dall'automobile scendono due bambini, sono i miei due figli (il terzo non è ancora arrivato!), ci avviciniamo alla rete, l'imponente edificio è adesso più vivace, l'enorme stella rossa sul tetto non c'è più. Metto in posa i bambini vicino al cippo che delimita il confine e faccio qualche fotografia (dopo trent'anni mi prendo la mia piccola rivincita); di la', da una finestra della stazione si affaccia una persona e guarda incuriosità questi "turisti" che fotografano un cippo di confine, una ringhiera ed una vecchia stazione sullo sfondo: "gente stramba" avrà detto, no solo gente che vuole mantenere il ricordo e la memoria!
La "rete" della stazione di Monte Santo, il vecchio Ospedale di Gorizia con i reparti in Italia e le camere mortuarie di là dal confine, il cimitero di Merna con le tombe divise in due dalla solita "rete" e chi era stato sfortunato per piangere i suoi Morti doveva mostrare il passaporto, sono "fotografie" che mi sono rimaste indelebili nella mente e che ancor oggi sono nitide.
Dedico questi ricordi a mia zia "fiumana" ed agli amici profughi istriani che ho avuto il piacere e l'onore di conoscere e frequentare.
Di seguito riporto il commento di Giovanni Blardelli pubblicato sul Corriere e che non è disponibile on-line:
"Quel lungo esilio tra rifiuto e disinteresse, un passato che continua a pesare."
Un'iniziativa così simbolicamente rilevante come la "riunificazione" di Gorizia e Nova Gorica sembra davvero archiviare una delle pagine più dolorose della storia italiana del 900: la perdita. dopo la seconda guerra mondiale, di una parte del territorio nazionale a vantaggio della Jugoslavia e il connesso esodo di centinaia di migliaia di istriani e dalmati. Si tratta di una vicenda tanto più dolorosa per questi ultimi poiché non ha mai suscitato un adeguato interesse nell'opinione pubblica. Bene ha fatto dunque ieri il segretario dei Democratici di sinistra Fassino a ricordare la necessità di dare finalmente a queller vicende il "giusto posto nella storia d'Italia". In realtà ciò significa anzitutto ricordare (benchè per la verità l'onorevole Fassino ieri non lo abbia detto) che fu proprio la sinistra comunista a comminare l'ostracismo ai danni degli esuli. Claudio Magris ha rievocato qualche anno fa sul Corriere quel che avvenne a Bologna nel 1947 quando i ferrovieri comunisti impedirono "a quella gente raminga di scendere dal treno a di mangiare e bere qualcosa", minacciando altrimenti di "bloccare con uno sciopero il più importante nodo ferroviario d'Italia".
Analoghe manifestazioni si ebbero ad Ancona, dove i profughi erano potuti sbarcare solo tra due file di poliziotti, e a Venezia, dove i lavoratori portuali si erano rifiutati di scaricare i loro bagagli. Quelle migliaia di esuli erano italiani che si sentivano profondamente legati al loro Paese: il giorno di ferragosto del 1946, nell'Arena romana di Pola, in migliaia avevano cantato il coro del Nabucco, come collettivo e simbolico addio a una città che presto non sarebbe stata più loro. Ma la base del partito comunista considerava i profughi né più né meno che fascisti, non potendo spiegarsi altrimenti come mai rinunciassero alla fortuna che era capitata loro in conseguenza del trattato di pace, quella di poter vivere in un paese socialista. Vi fu perfino un gruppo di operari comunisti che compì il percorso inverso, trasferendosi in Jugoslavia per contribuire con il proprio lavoro all'edificazione del comunismo.
Non va nemmeno dimenticato, tuttavia, che gli stessi governi di quegli anni curarono poco l'accoglienza di istriani e dalmati. Le autorità italiane evitarono di favorie l'esodo nella convinzione che una presenza consistente della popolazione italiana nei territori ceduti alla Jugoslavia potesse essere utile per una eventuale revisione di quanto stabilito dal trattato di pace. A ciò si aggiunse l'inerzia o l'inefficienza della burocrazia (ad Altamura i profughi furono accolti in un ex campo di prigionia dal quale ci si era dimenticati di rimuovere i cavalli di Frisia). Ma gli esuli furono anche guardati con sospetto dal ministero degli Interni, che dispose affinché ad essi si prendessero le impronte digitali. Non stupisce perciò che la loro causa diventasse presto appannaggio dell'estrema destra.
L'iniziativa delle amministrazioni di Gorizia e Nova Gorica mostra come tutto questo appartenga ormai al passato; ma sarebbe auspicabile che cominciassimo a sentire quei fatti come parte della nostra storia, riparando a un disinteresse che dura da mezzo secolo.