Non ci si abitua mai all'idea che un maestro, un caro amico, possa lasciarci. Neanche se è ormai arrivato alla soglia dei 96 anni e gli acciacchi si accaniscono sul suo corpo togliendogli le forze, offuscandogli la vista, accrescendo giorno dopo giorno il lento, inesorabile distacco dalle cose quotidiane, così importanti quando siamo forti, così fatue - e così vere - quando siamo giunti al tramonto.
Vitaliano Peduzzi è andato avanti, e a noi - diventati più poveri - resta il ricordo e l'esempio di un grande Alpino. Il suo ufficio, alla redazione de L'Alpino - del quale era stato direttore dal gennaio del '79 al marzo del 1980 e poi dal settembre del '93 allo stesso mese del '95 - ha sempre avuto la scrivania in ordine ed il computer, spento. “Sapete che mi piacerebbe imparare ad adoperarlo?”, ci disse un giorno. Era curioso della novità . Guardava al futuro.
Fino a pochi mesi fa veniva in redazione ogni mercoledì, per salutare il presidente e stare con noi. Quando la vista gli si era offuscata, gli leggevamo gli articoli. Lui ascoltava con attenzione, correggeva qualche termine, dava suggerimenti. I suoi consigli erano quelli d'un uomo saggio che aveva vissuto una vita straordinaria e piena.
“Ho amato la montagna a 15 anni e da allora l'ho sempre amata”. Con la stessa passione svolse il suo lavoro. Laureato in giurisprudenza, si dimostrò un ottimo organizzatore e per quarant'anni si prodigò all'istituto ortopedico Gaetano Pini, diventandone segretario generale. Nel '56, durante i giorni della rivolta d'Ungheria, organizzò e guidò una colonna di aiuti ai rivoltosi. Scrisse diversi libri, fra questi La divisione alpina Pusteria (Mursia). Ma uno in particolare ricorda il suo carattere nel titolo: “Candidamente fazioso”. E spiegava: “Io sostengo le mie tesi con irruenza e spirito di parte. Lo so: ecco perché quel candido. Ma cerco anche di vedere il meglio delle mie idee e il peggio di quelle altrui: ecco allora quel fazioso”. In effetti era caustico solo a parole, perché era di spirito liberale, aperto agli altri, sempre pronto all'ironia, che è l'arma dei saggi.
Con ironia e semplicità parlava dei suoi trascorsi militari. Ufficiale nella guerra in Etiopia, comandò una banda di Ascari che gli erano fedelissimi perché gli dicevano: tu non dici “andate!”, ma “andiamo”. Un esempio che non gli è venuto meno neanche durante i terribili giorni della guerra in Grecia. “La Russia è stata terribile - diceva - ma neanche in Grecia fu una passeggiata…”. Si meritò due medaglie di Bronzo e due Croci al Valore, e nel '43 entrò nelle file della Resistenza. A guerra finita partecipò anche alla vita politica, diventando vice segretario provinciale del partito liberale e consigliere comunale a Milano.
Nonostante i suoi molteplici impegni, fu sempre e prima di tutto un alpino. Ci teneva ai suoi gradi di capitano guadagnati sul campo. “Penna bianca, io? - diceva - Meglio essere un capitano vero che un maggiore falso…”. Il suo cappello del 7° “Feltre”, racconta la sua vita. Ne fu sempre orgoglioso: “Quando muoio, voglio portarlo con me”, diceva sereno.
Era un curioso della vita, uno spirito giovane e indomito. Amava gli alpini, l'Associazione. Aveva il senso dell'autorità , del dovere, del rigore, dello spirito di servizio.
Aveva raggiunto quella seconda ingenuità che è dei saggi: il senso delle cose e della vita. Non aveva rinunciato alle sue brucianti battute ma aveva temperato i suoi giudizi avendo conquistato la dimensione dell'effimero, il disincanto. “Sai che sono proprio stanco…”, aveva confidato poche settimane fa.
Se n'è andato in silenzio, assistito dalla moglie Giulia, addormentandosi per sempre. Poco prima aveva sorseggiato un tè, come s'addice a un gentiluomo che debba intraprendere un viaggio.