Volevo scrivere tante cose: dei profughi rifiutati alla stazione ferroviaria di Bologna, dei fidanzati che a tutti i costi vollero sposarsi a Pola prima di abbandonarla per sempre, della salma di Nazario Sauro accolta dai fischi a Venezia.
Poi ho trovato questa lettera sul "Corriere della Sera" di oggi e forse, ancora una volta, è meglio il silenzio.
10 febbraio, data fissa nel cuore
Caro Mieli, io sono nata a Zara in Dalmazia nel '42 e perciò sono una esule in patria. Una che ha passato tutta la sua vita tra Napoli, Torino, Roma e dintorni. Ho letto la sua risposta al lettore che voleva commenti positivi all'ultimo intervento di Violante. Io ho assistito di persona all'incontro che Violante ha avuto con noi profughi al Quartiere Giuliano-Dalmata di Roma. Le posso dire che il 20 marzo è una data che «non» ha alcun significato per noi dalmati, al massimo è il giorno che precede la primavera... e come tale augurale. Mentre il 10 febbraio per noi è una data fissa nel cuore. Non è una data inventata dallo Storace di turno. Sono anni che noi portiamo fiori e preghiamo per i nostri morti in quella data. I morti delle foibe, che ancora adesso sono ridimensionati da storici illustri, si rivoltano continuamente nelle loro tombe sconsacrate in mezzo a sterco di animali e rifiuti di tutti i tipi aspettando una parola di conforto che li aiuti a trovare quell'eterno riposo che solitamente non è negato ai giusti. Sappiamo bene che voi non capite. Per voi cosa sono poche migliaia di morti contro gli stermini di massa che hanno attraversato il secolo da destra e da sinistra. Gli Armeni che pagano il delitto di esser stati cristiani di rito romano al tempo delle Crociate con stragi turche all'inizio del secolo. I russi ammazzati dal loro stesso capo in serie successive e naturalmente gli ebrei sono qui a dirmi che io devo starmene da parte come ho fatto per 50 anni. Io continuerò a pregare per i miei morti, finché riuscirò a dormire una notte senza che tornino gli infoibati a dirmi «Non fate nulla per noi?»
(Maria Luisa Botteri)
Di mio, aggiungo idealmente solo un fiore.
Mandi.
Luigi
"Gli Alpini arrivano a piedi là dove giunge soltanto la fede alata"
(G. Bedeschi)
Dal "Corriere della Sera" di oggi.
Commento: ma io sapevo che l'ingresso di Croazia e Slovenia in Europa era stato vincolato a determinate garanzie...
Mandi.
Luigi
NUOVI NAZIONALISMI
Gli italiani d'Istria cancellati
di GIAN ANTONIO STELLA
PIRANO (Slovenia) - Dice la leggenda che Giuseppe Tartini si svegliò di soprassalto, la notte che Satana in persona gli ispirò il celeberrimo «Trillo del Diavolo». Certo non dormirebbe bene oggi: arruolato tra i Grandi Sloveni col nome di Josip, il grande violinista vedrebbe la sua Pirano svuotata dalla originaria popolazione veneta. I 1.169 abitanti che si dichiararono italiani al censimento del '91, ultimi sopravvissuti a decenni di comunismo jugoslavo di una cittadina italianissima, si son ridotti nella «democratica» Slovenia, prossima all'ingresso in Europa, a 698: meno 40%. Ci avviamo all'estinzione etnica. Ma il caso di Pirano, il gioiello artistico e monumentale dell'Istria, è solo il più devastante. E' tutta la parte slovena della penisola istriana a vedere il collasso della nostra comunità .
Ve li ricordate i titoli di dieci anni fa, dopo la «conta» del '91? «La primavera istriana»: così fu chiamata quella stagione prima dell'ultimo trauma, il confine che avrebbe segato in due, per la prima volta, questa dolcissima terra marchiata da un Novecento spaventoso. Dopo quasi mezzo secolo di progressiva emorragia, fiorivano dichiarazioni di italianità da Capodistria a Fiume, da Pola a Montona. E a questo rialzare la testa dei «nostri» si sommavano dichiarazioni di «istrianità » di un sacco di gente che non si voleva riconoscere nei nazionalismi sloveni e croati. E di lì a qualche tempo sarebbe fiorita la Dieta, il partito autonomista che col simbolo delle tre caprette teorizzava il trilinguismo integrale e il rispetto per tutte le culture che avevano costruito la splendida civiltà istriana.
Fu un piccolo grande sogno. Gli italiani d'Istria, a lungo accusati di non essere venuti via con quegli oltre 300mila esuli che avevano abbandonato le loro case per sfuggire al nazionalismo comunista, trovarono la forza di farsi sentire. Il presidente Francesco Cossiga, dopo averli bollati più o meno come traditori, ebbe l'onestà di chiedere loro scusa, accettando l'addolorato rimbrotto di Claudio Magris che gli aveva ricordato come tantissimi non fossero rimasti per cecità titina ma per amore della loro piccola patria: la casa, la contrada, le tombe nel camposanto... Il vecchio Antonio Borme, storico leader degli italiani, un comunista deluso poi epurato dai comunisti, si raccolse in preghiera con Cossiga alle Foibe di Basovizza. Gli esuli, fino ad allora riottosi alla riconciliazione dopo tante sofferenze, tesero la mano ai fratelli separati. E insomma tutto sembrava favorire il disgelo, la riconciliazione, il rinascimento della cultura italiana. Sembrava...
Non è andata così. Anzi. A distanza di qualche anno, l'Unione degli Italiani, unico organismo sopravvissuto al disfacimento della Jugoslavia e alla lancinante spartizione dell'Istria, si trova quasi quasi, per certi aspetti, a rimpiangere le garanzie date da Tito nell'idea di uno Stato che tenesse insieme tutti. Beninteso: viva la democrazia. Il crollo del comunismo, le libere elezioni, l'economia di mercato, la corsa all'Unione Europea, però, non sono stati affatto accompagnati da un maggiore rispetto per le minoranze. Al contrario. A parte la permanenza al potere, sotto nuove spoglie, di vecchi comunisti liftati come Milan Kucan a Lubiana e Franjo Tudjman a Zagabria, l'affermazione della identità slovena e della identità croata han portato talora a eccessi di delirio nazionalistico. Basti pensare al tentativo del Comune di Fiume di darsi uno statuto in cui i cittadini italiani non erano considerati "autoctoni", tentativo bloccato solo dal durissimo intervento della Farnesina dopo una denuncia del Corriere . O alla demenziale scelta di Lubiana, dopo la secessione dalla Jugoslavia, di pretendere che ogni abitante della Slovenia nato fuori dai nuovi confini chiedesse entro un anno la cittadinanza pena la cancellazione dai residenti. Col risultato che 14 mila persone, chi per motivi di principio («perché devo chiedere la cittadinanza slovena se sono un italiano nato nell'Istria croata o sono figlio di una coppia mista?») e chi per i motivi più vari, sono rimaste senza un documento valido. «Ricordo il caso di un italiano nato al di là della Dragogna: per fare i documenti aveva bisogno del certificato di nascita da ritirare in Croazia ma non poteva andare in Croazia perché non aveva i documenti indispensabili alla frontiera», racconta con amara ironia Maurizio Tremul, il presidente dell'Unione degli Italiani, «Una vergogna». Quei 14 mila «cancellati», a dire il vero, erano stati recuperati da una sentenza della suprema corte slovena. Ma i nazionalisti non si sono rassegnati. Il 4 aprile (forse) c'è il referendum: volete o no che i non sloveni restino cancellati? Bel biglietto da visita, per l'ingresso in Europa fissato il 1° maggio.
Il contorno, tuttavia, è perfino peggiore di questi specifici problemi. Al punto che, avuti finalmente i risultati del censimento 2002 comune per comune, l'Unione degli Italiani ha lanciato una drammatica denuncia del «sistematico e progressivo processo di attuazione restrittiva dei diritti costituzionali». Diritti consolidati tolti. Violazioni costanti della parità linguistica nelle aree di presenza storica italiana. Sordità alle esigenze di Telecapodistria che da anni attende di trasmettere fino a Fiume. Difficoltà sempre maggiori ai processi o ai matrimoni in italiano. Piccole angherie quotidiane: «Rinnovare la carta d'identità è stata una battaglia», racconta Alessandra Argenti Tremul, che pure è moglie del presidente dell'Unione, «Allo sportello volevano a tutti i costi cambiarmi il nome: "Perché 'Alessandra'? Lei è slovena quindi 'Aleksandra'!». Per non dire di certi depliant di Spalato che parlano del leone di San Marco come di un «leone post-illirico». O dell'appropriazione, da parte di croati e sloveni, di Francesco Patrizi, grande intellettuale dell'Italia del XVI secolo nato nella venezianissima Cherso e oggi spacciato per «Frane Petric». O di Giovanni Lupis, l'inventore fiumano del siluro, sbandierato oggi come Ivan Lupis. O del grande medico capodistriano Santorio Santorio, ribattezzato «Svetina».
C'è poi da stupirsi se il piccolo mondo italiano sopravvissuto sta morendo? Il responso è lì, nei numeri: 8 per cento in meno di italiani in Croazia rispetto al 1991, 26 per cento in meno in Slovenia. Con smottamenti nel Capodistriano (meno 30 per cento) e nel Piranese: meno 40 per cento. Mancano ancora i dati di Pirano città . Dieci anni fa, nel cuore storico, i «nostri» erano rimasti 220. Da quasi 5.000 che erano nel '45. Gli ottimisti dicono che potrebbero essercene ancora 150. Ogni tanto guardano al campanile di San Giorgio, identico a quello di San Marco a Venezia. E a qualcuno torna in mente l'ammaina bandiera della gente di Perasto del 1797 dopo la caduta di Venezia: «El nostro cor sia l'onoratissima to tomba, e el più puro e el più grande to elogio le nostre lagreme».
"Gli Alpini arrivano a piedi là dove giunge soltanto la fede alata"
(G. Bedeschi)