Bricchetto ha scritto:
E il cappello dovrebbero consegnarlo alla fine dell'addestramento, non prima.
Non so... è un'ipotesi suggestiva, ma io ho iniziato a sentirmi alpino quando mi hanno calato in testa il caratteristico copricapo. Lì ho sentito di far parte di qualcosa, lì abbiamo messo da parte buona parte della nostra individualità .
Certo che anche metterselo in testa sapendo di esserselo già meritati darebbe sicuramente un' emozione altrettanto grande, se non di più.
andrea ha scritto:maggiore Baisero, comandante del Btg. Alpini Gemona ...
Un grande.
L'ho conosciuto al Pieve di Cadore quando comandava la 68^ cp. fucilieri, quando ero aggregato alla sua cp. come istruttore al corso fucilieri per i topi della 167^.
Veramente un personaggio!
Sei stato fortunato ad averlo come comandante di btg.
C.le Lorenzo
7°/92 | 51 mortaista, addetto al tiro/tavolettista | 167^ Cp. Mortai "La Signora" | Battaglione Pieve di Cadore | 12° Reggimento Alpini | Brigata Cadore
Bricchetto ha scritto:
Roba da pazzi, ma quando è giusto è giusto.
Fatemi occupare un pò di banda per dire che sono d'accordo.
Fortunatamente per "loro" (e per noi), qualche Peppone è rimasto.
Se Peppone deve essere, che Peppone sia.
Dal racconto "L'altoparlante".
Mandi.
Luigi
Don Camillo ebbe un grande altoparlante in cima al campanile e la parola di Dio arrivò anche dentro la Casa del Popolo perché si trattava dell'altoparlante più potente che si fosse trovato. E così arrivò anche il famoso giorno della partenza delle reclute.
Peppone aspettava quel giorno. Aveva le idee straordinariamente chiare in proposito. Anzi le idee chiare in proposito le avevano gli altri, quelli che mandavano le direttive a Peppone: ma Peppone era convinto che fossero le sue idee e si preparò per tempo.
La partenza delle reclute della classe di leva doveva riuscire una cosa importante. Peppone mandò in giro lo Smilzo e la squadraccia con ordini perentori: roba buona e molta. E trovarla con le buone o con le cattive.
Ogni recluta doveva partire col suo bravo pacco di cibarie consegnato dal sindaco durante una solenne cerimonia in piazza. E, naturalmente, dopo un discorsetto fatto su misura.
Era il discorsetto ciò che interessava Peppone. I giovani dovevano piantarsi bene nel cervello che essi non sono carne da cannone, che il soldato non è al servizio del governo ma del popolo, e che il primo dovere del soldato è quello di pensare alla pace e di combattere i guerrafondai.
Venne il giorno, una buona giornata di sole, e la piazza era gremita.
Salendo sul palco, che era a poche decine di passi dal sagrato, Peppone guardò con occhio cupo la tromba dell'altoparlante.
- Speriamo che quel maledetto non faccia fesserie! - borbottò. Ed era preoccupato perché, con un arnese così a sua disposizione, don Camillo poteva diventare un flagello nazionale.
- L'importante è che tu non lo provochi, - osservò lo Smilzo. - Lascia perdere il Papa. Batti sul tasto dell'America e del governo venduto. Magari, in ultimo, puoi dare un colpetto anche al Vaticano.
Incominciò il discorso di Peppone ed incominciarono le sofferenze per don Camillo che stava ad ascoltare nascosto dietro le gelosie di una finestra della canonica.
“Gesù”, pregò mentalmente don Camillo, “poiché mi avete procurato il microfono, datemi la forza di non prenderlo in mano se quel disgraziato dice delle bestialità troppo grosse. Gesù, ascoltatemi perché ho tanto bisogno del vostro aiuto. Pensate che quel microfono l'ho già qui in mano e basterebbe che io schiacciassi questa levetta perché la mia voce rimbombasse come tuono nella piazza”.
Peppone incominciò a parlare e non aveva bisogno d'altoparlante perché la sua voce era potente e arrivava fin sull'argine del fiume grande.
- Io vi porto il saluto del popolo - incominciò Peppone. - Di quel popolo che ha voluto significarvi il suo affetto con una generosa offerta di commestibili, nonché vino e generi di conforto. Assieme al saluto dei lavoratori io vi voglio portare la voce della coscienza democratica. Quella voce che ha una sola parola: Pace!...
“Gesù, ci siamo”, ansimò don Camillo.
- Pace che vuol dire giustizia sociale, lavoro, libertà , - continuò Peppone, - rispetto alla vita umana, la quale sono passati i tempi barbari e medievali del popolo considerato come carne da macello per gli interessi sporchi degli speculatori e degli sfruttatori.
Il maresciallo dei carabinieri che ascoltava dietro un pilastro del porticato si asciugò il sudore e si toccò la tasca dove stavano il taccuino e la matita.
- Voi, figli del popolo, - urlò Peppone, - non siete al servizio dei politicanti che siedono al governo, ma siete al servizio del popolo! E il popolo vuole la pace! Il popolo vuole soltanto quella pace che è insidiata dalle macchinazioni atlantiche, e quella pace dovete difendere! Non vogliamo cannoni! Vogliamo lavoro e case! Non vogliamo bombardieri e sottomarini: vogliamo strade, scuole, acqua e giustizia! Non vi lasciate ingannare da coloro che, quando arriverete nelle caserme, vi parleranno di patria e di altre balle! La patria siamo noi! La patria siamo il popolo! La patria siamo i lavoratori che soffrono!...
Don Camillo sudava come una fontana e il microfono gli scottava fra le mani. “Gesù”, implorò, “date un po' di luce a questa mia povera testa piena di buio. O io, se quello continua, farò una fesseria.”
Dio lo illuminò e gli diede la forza di staccare il microfono e di innestare la spina dell'altoparlante nel radiogrammofono.
“Se continua farò della musica”, decise don Camillo.
Peppone aveva ripreso fiato e il maresciallo teneva già tra le mani la matita e il notes.
- Reclute! - urlò Peppone. - Ascoltate la voce del vostro popolo! Andate nelle caserme perché così vuole la barbara legge nemica dei lavoratori, ma dite chiaro e tondo a coloro che tentano di armarvi per combattere i fratelli proletari del grande paese della libertà , che voi non combatterete! Dite che voi...
In quel momento l'altoparlante della torre cominciò a crepitare. Don Camillo attaccava.
Peppone si interruppe e impallidì. E tutti stettero zitti.
Cosa avrebbe detto l'altoparlante?
Ma dalla tromba non uscirono parole.
Uscirono dall'altoparlante le note dell'inno del Piave.
Già , il Piave.
Peppone, rimasto a bocca aperta, non riusciva ad innestare la marcia, ma lo Smilzo gli allungò una pedata in uno stinco, e allora si riprese. La sua voce potente si frammischiò alla musica che usciva dall'altoparlante.
- Dite a coloro che tentano di ingannare il popolo, a coloro che diffamano il popolo, che i nostri padri hanno difeso la patria dall'invasore allora e noi siamo pronti oggi a tornare sul Carso e sul monte Grappa dove abbiamo lasciato la meglio gioventù italiana. Dovunque è Italia, dappertutto è monte Grappa quando il nemico si affaccia ai confini sacri della patria! Dite ai diffamatori del popolo italiano che, se la patria chiamasse, i vostri padri, ai quali brillano sul petto le medaglie al valore conquistate nelle pietraie insanguinate, giovani e vecchi si ritroveranno fianco a fianco e combatteranno dovunque e contro qualunque nemico, per l'indipendenza d'Italia e al solo scopo del bene inseparabile del Re e della patria!
Ma si, il Re. E il Re volò via insieme alla patria sulle ali del Piave salutato dalle urla deliranti di una piazza gremita. E il maresciallo dei carabinieri lo vide passare per il cielo della Repubblica ma non lo infilzò col lapis per appiccicarlo sulla carta del notes.
Anzi lo salutò portando la mano alla visiera.
Allegati
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"Gli Alpini arrivano a piedi là dove giunge soltanto la fede alata"
(G. Bedeschi)
Ho quasi finito di leggere il primo volume "Tutto don Camillo", di Guareschi (2 volumi + volumetto con le schede dei racconti, ed. BUR... prezzo Euro 40 hock: - fortuna che è un regalo!!!!) dedicato al suo "Mondo piccolo" e questo qui riportato da Luigi è uno di quelli rimasti più impressi nella mia memoria!
Lo cercavo da un po'.
Godetevelo poco alla volta, magari la sera prima di andare a letto, come le grappe degne del nome. "...con questa legge creiamo 100.000 nuovi posti di lavoro"
Luigi ha scritto:Lo cercavo da un po'.
Godetevelo poco alla volta, magari la sera prima di andare a letto, come le grappe degne del nome. "...con questa legge creiamo 100.000 nuovi posti di lavoro"
Farti i soliti complimenti, Luigi, mi sembra un po' riduttivo, comunque sei un grande!
E il cappello dovrebbero consegnarlo alla fine dell'addestramento, non prima.
Non so... è un'ipotesi suggestiva, ma io ho iniziato a sentirmi alpino quando mi hanno calato in testa il caratteristico copricapo. Lì ho sentito di far parte di qualcosa, lì abbiamo messo da parte buona parte della nostra individualità .
Sono pienamente d'accordo con Nicola. Il giorno che mi misero in testa il cappello, che tanto avevo sognato di ricevere, quando bambino mi rimiravo con in testa quello dei parenti, sentii un fremito che mi scosse violentemente... Da quel momento appartenni a ciò che rappresentava quel cappello.
L'idea di Bricchetto non sarebbe così peregrina se non fosse tutto spiegato dalle parole del grande Bedeschi, che riassumo a memoria brevemente e malamente:
<<Il cappello è un tutt'uno con l'alpino da quando il magazziniere lo sbatte in testa al bocia, fino all'addestramento, alle marce in montagna, alle fatiche quotidiane. E' l'ideale per raccogliere l'acqua e la pastasciutta (checché ne dicano il cappellano ed il medico), è la minima protezione del viso mentre rammenta il tepore di casa nelle poche ore di sonno; in montagna è preferito all'elmetto, non perché il feltro protegga dalle pallottole più dell'acciaio, ma perché a portarlo ci si sente più alpini; spesso non calza nemmeno più per le bende che fasciano la testa del proprietario, che un bel giorno qualcuno appella "Vecio", facendolo sentire pienamente alpino. Finita la naja viene riposto con gelosia o appeso alchiodo in bella mostra, staccato soltanto per qualche raduno o per provarlo sulla testa dell'ultimo nipote, per vedere che bell'alpino sarà da grande: infine è appoggiato sulla cassa per dire che c'è un alpino di meno sulla terra e che se non può risvegliarlo lui, nessun'altro lo può fare fino al giudizio universale. Se vi pare poco provate voi a fare la stessa vita dell'alpino e del suo cappello!>>
Ten. Francesco Papi
5° a. mon.
Gr. Bergamo
32^ btr.
Se alla (buona) idea dell'amico Bricchetto sostituiamo la parola "cappello" con "Penna", ci ritroviamo a piè pari all'interno delle nostre tradizioni.
Un tempo (mica poi così tanto: la generazione prima della mia ad esempio) la Penna veniva consegnata all'Alpino al termine dell'addestramento di base, durante una cerimonia che di norma si svolgeva sulla vetta di qualche montagna (dalle parti dove ho svolto servizio io sul Monviso) nella quale il Colonnello Comandante del Reggimento consegnava di persona la Penna al bocia. E la cosa non era automatica: il bocia doveva arrivare, armi e bagagli, in vetta, per lo meno, e aver prima superato l'addestramento, di cui la Marcia della Penna, appunto, costituiva l'atto finale. Se non ci arrivavi, niente Penna e niente Reggimento.
Da notare che poi, dopo la marcia, si incominciava a fare sul serio con il resto dell'addestramento.
Anche oggi si potrebbe fare qualcosa del genere: addestramento di base (Alpino)--> Esame (di cui la Marcia della Penna costituisce l'ultima prova)--> Alpino "grezzo" (ma con i benedetti 50 euri al mese in più rispetto agli altri in tasca)--> addestramento "mirato" o più approfondito --> Alpino Scelto (e non per tutti ovviamente) --> Corso Graduati di Truppa eccetera.
Racconto trovato in rete.
Dedicato a tutti i dilettanti allo sbaraglio che hanno portato le stellette.
"... la disciplina era di acciaio inossidabile..."
Mandi.
Luigi
"Ho prestato servizio militare nel '77 (per farmi una vacanzetta al quarto anno di universita', avevo 23 anni) ed ero alpino (alla fine caporal maggiore) nel battaglione Susa del gruppo tattico aviotrasportabile della brigata alpina taurinense. Sebbene fossi stato costretto ad un ufficio mi fu consentito di partecipare a buona parte dell'attivita' addestrativa, nonche' a praticare un po' di sport nell'attrezzatissima palestra insieme ad un amico sergente maggiore (bravo rocciatore). Il comandante della compagnia era ottimo atleta, ex campione regionale di 400 a ostacoli della sua regione, e buoni atleti sembravano essere tutti gli ufficiali e sottoufficiali del battaglione (anche quelli addetti alle cucine e al commisariato).
La disciplina era di acciaio inossidabile anche se posso testimoniare atteggiamenti largamente comprensivi verso tutti men che verso gli spacciatori di droga che venivano semplicemente affidati ai carabinieri e portati al carcere militare (ero spesso difensore degli alpini che si erano messi nei guai, quindi le mie sono informazioni di prima mano). Durante le attivita' addestrative chi "cedeva" era punito, c'era gente che non usciva in libera uscita o in licenza per mesi. Dall'altra parte chi assecondava l'ambiente era "ben ricompensato", io (che sono stato additato ad esempio di buon comportamento durante un'adunata un mese dopo il mio congedo) ho passato quasi tutti i week-end a casa, non sono mai stato punito (a parte la tradizionale punizione collettiva dei "buoni"), ero praticamente esonerato da servizi antipatici, ecc. I rapporti con gli ufficiali, e anche tra ufficiali, erano sempre formali, anche se potevano essere improntati a cordialita'. L'attivita' addestrativa (che riguarda gli ufficiali, non la truppa, che serve solo da materia prima; che un alpino sia o no addestrato non interessa se non in funzione dello sviluppo della capacita' di comando dell'ufficiale) si svolge in montagna. Io non partecipavo alle 3 marce di 30 Km settimanali, ma solo alla ginnastica e alle corse di 15 Km. Partecipavo regolarmente ai campi e ai tiri, sia con armi leggere, sia coi mortai da 120 mm (c'erano anche altri mortaietti, non ricordo se da 80 o da 88). I tiri coi mortai erano sempre in compagnia della batteria del gruppo (basata a Rivoli) con gli obici da 105 mm. Sono stato fortunato a seguire tutte le esercitazioni dall'osservatorio, come radiofonista del capitano, con qualche visita alle armi. Se l'arma base non acquisiva il bersaglio in tre colpi, il capitano si incazzava e puniva il sottotenente osservatore, il tavolettista e lo specialista al tiro (di questi ultimi capitava pero' che si "dimenticasse" la punizione...). Dopo il quarto colpo a vuoto puniva tutto il plotone dell'arma base (ma tavolettista e specialista poi andavano lo stesso in licenza). Durante esercitazioni in Italia avevamo avuto aggregati reparti tedeschi (li svegliavamo alla mattina alle 7 con una bella manciata di castagnole nella tenda), un'altra volta francesi (seri, come noi del resto). Avevo partecipato anche a una delle manovre Nato in Norvegia (zona Tromso, mese di marzo), 19.000 uomini comprendenti oltre al nostro gruppo, completo di ospedale militare, reparti di marines americani, royal marines inglesi, canadesi, norvegesi e non ricordo chi altri. Nella manovra noi eravamo coi 6000 degli azzurri e avevamo royal marines sulla sinistra e canadesi sulla destra, avendo contro marines e norvegesi. Secondo i piani della manovra nei primi 3 giorni avremmo dovuto ritirarci prima su una linea di resistenza flessibile (ca. 20 Km dietro la prima linea), poi su una linea di irrigidimento (altri 20 Km indietro); la sera del primo giorno inglesi e canadesi erano gia' sulla linea di irrigidimento e noi ci ritirammo a nostra volta durante la notte per evitare di essere accerchiati. Interessante l'effetto "nebbia": quella notte avevamo perso il contatto coi nostri osservatori, i nemici facevano jamming sulle nostre radio, gli esploratori non davano piu' segni di vita (scoprimmo poi che stavano saccheggiando le tende dei marines). Comunque il nemico spari' dalla circolazione e dopo 4 giorni la manovra fu dichiarata conclusa. Ebbi modo di vedere all'opera i marines: quando noi si doveva sbaraccare il campo, il capitano faceva scattare il cronometro e iniziava a punire se dopo 1 minuto e 15 sec. non si era tutti sui camion pronti a partire; gli americani, i marines, che avevano degli enormi tendoni riscaldati da pompe di aria calda ogni 4-5 metri, sbaraccavano in un giorno, aiutati dagli elicotteri. Durante la manovra avvenne anche questa: ci trovavamo al campo della nostra compagnia (mortaisti) che mimetizzato nel bosco era invisibile dall'alto. Comunque un elicottero nemico svolazzava sempre a quote alte (no, non erano gli osservatori, di quelli ci avvertivano), fatto sta che subiamo un attacco da 5 elicotteri che arrivano, lasciano saltare i marines da un metro di altezza e schizzano via, i marines si buttano a terra a riccio e ... si alzano con la mani in alto: gli imbecilli si erano fatti sganciare giusto in mezzo al campo e avvenne cosi', forse per la prima volta nella storia, che un gruppo mortai facesse dei prigionieri. Non parliamo della manovra a fuoco l'ultimo giorno. Gli inglesi ci offrono un passaggio fino all'osservatorio sui loro cingolati da neve. A meta' strada un cingolato si guasta, noi proseguiamo a piedi, loro aspettano per 2 ore il mezzo di scorta. L'acquisizione del bersaglio (un sassone in mezzo a una valle, bersaglio di 6 gruppi mortai e 4 gruppi di artiglieria) spetta agli inglesi che hanno all'osservatorio un tremendo cannocchialone che se lo punti sul bersagio ti mostra su di un display le sue coordinate, non solo, quel coso e' collegato via satellite a un computer montato su campagnola in area obici che comanda gli attuatori dell'arma base: 1 ora e un quarto per acquisire il bersaglio. E li' avvenne la fortuna dei nostri militi perche', essendo stato stabilito un colpo di batteria (cioe' tutti i colpi dovevano arrivare contemporaneamente sul bersaglio) e dovendosi pertanto lanciare i colpi con una cadenza predefinita, dipendente ovviamente dalle diverse distanze dal bersaglio e dovendo essere la nostra arma base quella che doveva sparare per prima, avvenne che subito dopo l'ordine di "fuoco" un elicottero entrasse nell'area del poligono e fosse pertanto immediatamente dato l'ordine di sospensione dei tiri, ma il nostro colpo ormai era partito. Trentatre secondi dopo, solitario e di inequivocabile provenienza, cascava esattamente subersaglio. E questo con tavola di legno, goniometro, carta millimetrata e spilli" (Marco Fortina)
"Gli Alpini arrivano a piedi là dove giunge soltanto la fede alata"
(G. Bedeschi)
Commento: i racconti dei miei veci che hanno fatto campi all'estero sul tipo di quelli raccontati qui sopra, dicevano lo stesso. Gli Americani, spaziali, come i Canadesi. Gli Inglesi piuttosto distaccati (molti di quelli con cui si esercitarono erano reduci delle Falkland), non gli fregava più di tanto di una banale esercitazione .
Noterete che disciplina e addestramento erano ferrei, anzi: d'acciaio, come ha scritto l'autore. Ottimo l'accenno al fatto che se il pezzo base (pardon: arma dato che è un mortaio) faceva casini, cioè non andava subito al bersaglio, che prendeva merda era prima di tutto lo Sten Osservatore e subito dopo quelli dell'arma base. Salvi i vejass del posto comando. Lo stesso succedeva da noi (ma noi non si sbagliava però massimo un tiro di correzione, in media, durante l'aggiustamento. E anche noi con tavolette e questo con lo stesso tipo di attrezzatura altamente tecnologica dei mortaisti: tavolette, goniometri spilli e carta millimetrata): il nostro Capitano per gli anziani con esperienza e comprovate abilità e affidabilità aveva un occhio di riguardo quando calava la scure disciplinare per cavolate fatte in esercitazione.
Ciao e viva ora e sempre i Dilettanti allo Sbaraglio.
Federico ha scritto:
Ottimo l'accenno al fatto che se il pezzo base (pardon: arma dato che è un mortaio) faceva casini, cioè non andava subito al bersaglio, che prendeva merda era prima di tutto lo Sten Osservatore e subito dopo quelli dell'arma base
Quanti ricordi...
Primo giorno della scuola tiri, al quarto o quinto sparo (un accertamento) sento in radio il nostro nominativo chiamato dal DT... ca##o abbiamo combinato, penso... rispondo, e invece del cazziatone arrivano i complimenti per il bersaglio centrato in pieno al primo colpo
Come si dice, si lavora duramente ma poi arrivano le soddisfazioni!"
Mandi, e sempre viva i DAS!
Luigi
"Gli Alpini arrivano a piedi là dove giunge soltanto la fede alata"
(G. Bedeschi)