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jolly46
Maresciallo Maggiore
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Bedeschi inedito

Oggi sul Corriere della Sera un'intera pagina dedicata a Giulio Bedeschi, ecco gli articoli:


INEDITI Un racconto di Giulio Bedeschi: venticinque anni dopo il suo capolavoro rivisse la guerra con gli occhi dell’avversario


Il nemico russo: onore alle gavette di ghiaccio
di GIULIO BEDESCHI

Alle prime luci dell’alba di quel 26 gennaio il Comandante dei reparti russi ammassati a Nikolajewka poteva a buon diritto considerarsi soddisfatto: l’ultima trappola stava per scattare, egli l’aveva preparata a puntino, in giornata avrebbe senz’altro segnato sulla neve, dinnanzi a Nikolajewka, la parola «fine» alla incredibile storia di quel moribondo Corpo d’Armata Italiano. Cosa si credevano quei dannati « alpini » o come si chiamavano? (...).
Erano passate le ore della mattina, e il comandante russo si sentiva ancora più tranquillo: l’attacco degli alpini a Nikolajewka non raggiungeva nessun risultato, era un gioco il contenerlo, bastava sparare contro quei plotoncini sparsi, quelle mezze compagnie che si facevano avanti strisciando sulla neve; per inchiodarli bastava il tiro teso delle mitragliatrici, o al più un bel grappolo di bombe di mortaio, e i colpi secchi dei controcarro per far tacere qualche mitragliatrice isolata; gente di fegato senz’altro quegli alpini , ma non concludevano niente di più che farsi ammazzare .
C’erano anche quegli altri, è vero, che nelle ultime ore si andavano ammassando sul costone ad est del paese: egli era salito più volte sul campanile della chiesa di Nikolajewka per osservarli meglio, se ne stavano là  sulla sinistra, su quel costone che prendeva quota dal fondo della valletta, al di là  della ferrovia, e si raccordava con la pianura aperta; se ne stavano là  come torme di lupi affamati che non si arrischiavano di avvicinarsi all’abitato; erano molti, migliaia e migliaia; ma cosa importa, se era evidente che non avevano forza offensiva? Era inutile sprecare munizioni per quelli; per quelli andavano meglio le bombe e gli spezzoni di mitraglia dell’aviazione, che aveva già  iniziato il suo intervento.
Bastava tenerli bloccati là  dov’erano, sulla neve, dopo il tramonto del sole e durante la notte il generale Inverno avrebbe fatto il suo servizio conclusivo, non valeva neppure la pena di far fatica ad annientarli; sarebbe bastato salire lassù all’indomani per vedere lo spettacolo di un corpo d’armata impietrato al completo sulla neve, e al massimo saldare il conto con qualcuno più duro degli altri, sopravvissuto ai quaranta sotto zero.
Dannazione, non la piantano, e c’è ancora un paio d’ore di luce - diceva più tardi il Comandante russo di Nikolajewka agli ufficiali rimasti nell’isla-comando - attaccano di continuo e con più forza di stamattina, non mi piacciono queste infiltrazioni al sottopassaggio della ferrovia e intorno alla stazione.
Li respingiamo, e quelli tornano. Cosa vogliono? Non capiscono che li facciamo fuori a uno a uno, fossero anche cento volte più numerosi? Eppure, basterebbe che contassero i loro morti sulla neve (...).
Certo, i suoi uomini combattevano bene. Stavano vincendo da quarantacinque giorni, in lungo e in largo per l’Ucraina; e si sa cosa vuol dire respirare l’aria di una vittoria sempre più grande. Ora erano lì schierati con le loro armi, facevano un fuoco d’inferno, non poteva passare una mosca. Certo però che quegli alpini avevano ancora del fiato in corpo. Molto. Incredibile, dopo la vita orrenda alla quale l’Armata Rossa li aveva sottoposti nell’ultimo mese e mezzo. Certo che erano riusciti ad infiltrarsi parecchio, qui e là , avevano annientato diversi nidi di mitragliatrici avanzati. Si facevano ammazzare, ma causavano anche forti perdite. Ma ci voleva altro. Anche quei due cannoni semoventi tedeschi che erano riusciti a mettere fuori uso qualche carro armato, erano stati costretti a ripiegare e tacere, si capisce: non potevano né proseguire né stare, finché i reparti alpini non ce la facevano ad avanzare in forze su Nikolajewka. Ancora mezz’ora, un’ora al massimo, poi il buio, e tutto finiva; i suoi reparti avrebbero riposato al caldo delle isbe, lui avrebbe ordinato solo brevi turni agli uomini alle armi, un attento servizio di sentinelle, e dei pattuglioni a tener d’occhio il settore, che per quei pazzi italiani ormai si stava trasformando in ghiacciaia. E buonanotte, all’indomani avrebbe tirato le somme (...).
Fuori l’aria era gelida, il sole ormai galleggiava all’orizzonte, tra poco sarebbe affondato. Le esplosioni si infittivano, granate cadevano qui e là  fra le isbe, pallottole di mitragliatrice sibilavano, quegli italiani avevano ripreso lena, effettivamente nuovi reparti avanzavano in ordine sparso sulla neve, proprio adesso non ci volevano quelle due compagnie sulla sinistra e sulla destra, che mettevano sotto tiro Nikolajewka dai fianchi e prendevano d’infilata le postazioni avanzate russe. Puntò il binocolo sul costone est, e osservò l’enorme massa d’uomini, non più immobili: una agitazione, una insofferenza nuova percorreva le schiere, come se una voce o un ordine passasse da uomo a uomo, era quel fremito oscuro che in una massa precede il tumulto. È soltanto una manovra pensò, testardo. È una grossa mandria, non scenderà  mai dove si spara. Volse infine il binocolo al basso, alla ferrovia, e allora vide un’autoblinda che già  avanzava, con ritto un uomo che si sbracciava; e con lui, intorno a lui, dietro a lui avanzavano gruppi di uomini forsennati, e altri giù dalla neve sorgevano e accorrevano, o puntavano dritti verso le isbe, ormai al di qua della ferrovia, puntavano radi ma da ogni parte verso le mitragliatrici e i cannoni.
«Sparate a quello! - gridò il Comandante fissando di nuovo attraverso le lenti del binocolo il piccolo uomo che sull’autoblinda avanzava puntando un braccio verso Nikolajewka; - sparate tutti contro quello!».
Si ritrovò a gridare come un pazzo esasperato. Si contenne. Abbassò il binocolo, si guardò attorno, scambiò un’occhiata inquieta con l’aiutante maggiore: dalla parte della ferrovia, al bordo della conca, ora molti alpini avevano raggiunto sparando la linea dello schieramento russo, molte mitragliatrici tacevano, qualche anticarro veniva arretrato alla svelta e perciò taceva, varie isbe bruciavano, alcune compagnie avevano ripiegato in posizioni arretrate e gli uomini sparavano riparandosi dietro gli angoli delle isbe, pronti ad arretrare ancora.
«Compagno Comandante - disse nervosamente l’aiutante maggiore - la massa sul costone si muove». Non occorreva il binocolo. Nell’ultima luce, a poco più di un chilometro di distanza, il Comandante vide che dalla sommità  del costone il bordo inferiore della massa compatta si espandeva lentamente verso il basso. Sulla neve bianca, come un esercito di formiche, la massa scura scendeva verso Nikolajewka. «Compagno Comandante - disse un ufficiale del Comando giungendo di corsa, il vapore gli usciva a sbuffi dalla bocca - il settore verso la ferrovia non si può più tenere, il nemico ha occupato la fascia esterna del paese, bisogna attestarsi sulla parte alta, verso la chiesa».
«Provvedete in questo senso», disse passivamente il Comandante. Guardò verso la ferrovia, l’omino non si vedeva più, né l’autoblinda; era certamente giunto fra le isbe, con quella torma di suoi dannati uomini che già  sfruttavano ferocemente il loro successo tattico; impossibile ricacciarli ormai.
Guardò il costone, la macchia nera si distingueva appena, nel primo buio, ma era scesa.
Strinse le labbra, aggrottò la fronte sotto il berretto di pelo. Era un valoroso soldato, i pensieri che gli attanagliavano il cervello gli facevano male. Presto: «Far affluire gli autocarri e i cannoni sulla pista nord», ordinò all’aiutante. «Motori accesi, ma tenere la pista sgombra, evitare intasamenti. Resistere all’attacco isba per isba, arretrare lentamente e con ordine. Ridurre gradualmente il numero dei combattenti sulla linea del fuoco, usare soltanto armi portatili e mitragliatrici leggere, caricare il resto».
Duri, duri questi alpini, non avrei creduto tanto. Ormai conviene arretrare, li finiremo domani, non voglio sacrificare altri miei uomini per quei pazzi scatenati (...).
Nel buio, la massa scura continuava a calare, le schiere di testa avevano ormai raggiunto il sottopassaggio della ferrovia, in cui già  s’imbottigliavano uomini, slitte e muli.
Formicolante di braccia di gambe di barbe e di stracci, gonfia e mesta dal dolore, nella sua mole informe e gigantesca, sulla via aperta dal sacrificio della «Tridentina» la massa nera stava calando dal costone e già  risaliva, affannando, verso le isbe di Nikolajewka.

IL PROTAGONISTA
Un medico scrittore in prima linea fra i soldati

Giulio Bedeschi, nato ad Arzignano in provincia di Vicenza nel 1915, ha legato il suo nome alla tragica campagna degli alpini italiani in Russia narrata in Centomila gavette di ghiaccio . Di professione medico, prima di prendere parte personalmente alle battaglie sul fronte russo con la divisione alpina «Julia», si era trovato sul fronte greco-albanese. L’esperienza tragica della ritirata, fra imboscate, temperature polari e mancanza di cibo e riparo, gli fornirono il materiale cui avrebbe attinto ultimando, fra il ’45 e il ’46, le celebri Gavette , che ebbero centotrenta ristampe e numerose traduzioni in tutto il mondo. Più tardi, nel 1966, ultimò Il peso dello zaino , ideale prosecuzione del primo, fortunato libro.
Per circa un ventennio diresse la collana dell’editrice Mursia «C’ero anch’io», una raccolta di testimonianze di quanti combatterono sui diversi fronti di guerra, da quello africano all’albanese. Morì nel 1990, a 75 anni. La casa editrice Mursia sta allestendo un volume con scritti dispersi e inediti di Giulio Bedeschi.


L’ALTRA STORIA

Stella rossa e penne nere Stessi dolori, stessi eroi
di PAOLO DI STEFANO

«Travolti dalla seconda guerra mondiale che la pazzia fascista aveva scatenato». Così, secondo le parole di Mario Rigoni Stern, finirono gli alpini che tra il dicembre 1942 e il gennaio 1943 si trovarono nella steppa russa senza sapere bene che destino li aspettava. E' quanto racconta Giulio Bedeschi in un romanzo epico passato alla storia, Centomila gavette di ghiaccio . Bedeschi era un giovane tenente medico del Terzo Artiglieria della Julia, aveva raggiunto il reparto in Grecia, munito di un semplice «zainetto di sanità  che conteneva alcune garze, una pinza emostatica, cerotti e un disinfettante», come raccontò in un’intervista a Enzo Biagi. Con quel misero armamentario e con un coltello da tasca, curò, suturò, amputò. Salvò centinaia di compagni che arrancavano a trenta gradi sotto zero, nel vento, nella neve, nella tempesta. Bedeschi, che morì settantacinquenne nel '90, vide il suo libro, il primo di otto, rifiutato da ben quindici editori, prima di approdare alla Mursia, che nel '63 ne fece un best seller da milioni di copie. Cominciò a scriverlo in un altro inverno, tra il '45 e il '46, con lo spirito e l'ansia di chi aveva «l'animo invaso da una montagna di ricordi brucianti, mentre intorno la gente si affannava a rifarsi la vita». Raccontava, con lo stile piano e diretto del testimone, l'epopea degli italiani in ritirata tra il Don e il villaggio di Bolsetroikojo, dove morirono quasi 85 mila soldati. Erano ricordi pieni di angoscia, ricordi di commilitoni ridotti a statue di ghiaccio, di uomini con gli arti squarciati, di moribondi in marcia, di disperati desiderosi soltanto di salvare se stessi e, «nella disfatta d'una guerra perduta, l'estremo lembo della dignità  umana». Erano «tutti stracciati, fradici; - ricordava Bedeschi - le divise a brandelli, le camicie strappate, le fasce penzolanti e disfatte li facevano sembrare mendicanti, vagabondi cenciosi. Quasi nessuno aveva scarpe, i piedi erano avvolti in stracci tenuti insieme con spaghi, con ritagli di coperte, con brandelli di maglie. Qualcuno aveva infilato i piedi in maniche di cappotto serrate anch'esse oltre le dita e all'altezza della caviglia con cordelline, cinghiette, lembi di camicia: un soldato aveva un piede chiuso in un tascapane e l'altro piede nudo».
Il brano inedito che pubblichiamo in questa pagina, parte di un racconto più ampio, fu scritto nei primi anni '70. Anni in cui veniva messo in dubbio il coraggio delle truppe di sbandati italiani che furono celebrati da Bedeschi. Dunque, Bedeschi volle ritornare (con la memoria) sul luogo del massacro, per immaginare la storia da un altro punto di vista. Quello del Comandante dei reparti russi. Non c'è più il medico Serri, protagonista delle Gavette e alter ego dell'autore; non c'è più il capitano Reitani, niente slittini e uomini congelati, niente colpi di mortaio, niente cadaveri dilaniati, privi di arti e sanguinolenti, nessun tritume di capelli, denti e ossa, come si leggeva nel romanzo. Qui il punto di vista è capovolto. Siamo dalla parte dei vincitori. Che cosa pensava, il Comandante russo, di quel «moribondo Corpo d'Armata»? Pensava che sarebbe stato un gioco da ragazzi contenerlo. Ma quegli alpini sbrindellati, quei «plotoncini sparsi» erano davvero incapaci di reagire e pronti alla resa? Non manca un velo di orgoglio nella strenua resistenza narrata da Bedeschi. «Dannazione, non la piantano», pensava il Comandante. Quei «pidocchi» avanzavano sul costone nell'aria gelida. Una mandria disperata ma coriacea camminava verso le isbe di Nikolajewka. «Duri, duri questi alpini, non avrei creduto tanto... li finiremo domani».
..... E PER RINCALZO IL CUORE!

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